Via
Germanico si trova nel quartiere romano di Prati, un quartiere
costruito nei primi decenni del ‘900, e collega piazza
dei Quiriti a via Leone IV. Nella via ci sono molti palazzi,
sobri ed eleganti, in linea con lo stile umbertino dell’intero
quartiere: è una strada tranquilla e fresca, con la presenza
di diversi negozi, ed ancora oggi non è contagiata dal
tipico caos delle vie vicine.
Al numero civico 96 si trova un palazzo signorile e tranquillo.
Sia la strada che l’edificio non sono molto cambiati da quel
16 ottobre 1943, anche se l’atmosfera è totalmente
diversa: il 16 ottobre ‘43, la città era grigia per
la pioggia della notte e per il dramma che si stava consumando
non solo in Prati, ma in tutti i quartieri romani; la sensazione
di tristezza e di angoscia, come se tutta la via fosse grigia e
opaca, non è più presente, la strada appare piena
di colori e serena.
Proprio davanti al portone di questo palazzo, dal 14 gennaio 2011,
sono presenti tre pietre d’inciampo dell’artista Gunter
Demnig. Le pietre ricordano la vita e la morte di Marco Giacomo
Giuseppe Efrati, ricordato più semplicemente con il nome
di Giuseppe, e di sua moglie, Clara Baroccio. Anche il loro figlio
Augusto, anch’egli deportato, è ricordato con una
propria pietra d’inciampo.
Nella mattina del 16 Ottobre 1943 ebbe luogo la prima azione di rastrellamento
nell’ex ghetto di Roma. In questo piccolo quartiere a ridosso del Tevere
gli ebrei romani erano stati confinati dai Papi fin dal 1555 e definitivamente “liberati” solo
con la presa di porta Pia nel 1870. Ma il rastrellamento non avvenne solo lì.
Infatti, nel 1943, solo una piccola percentuale, meno della metà, dei
Romani di fede ebraica era concentrata nell’ex ghetto, il restante si trovava
in tutti i quartieri della capitale. Questo simboleggia in modo evidente come
loro si fossero perfettamente integrati nella società: in quel momento
vivevano a Roma infatti circa 13.000 ebrei fra italiani e stranieri. Insieme
agli altri quartieri, anche quello di Prati fu oggetto della retata. Nella sola
via Germanico, oltre ai coniugi Efrati, a cui sono intitolate due delle tre “pietre
d’inciampo”, furono arrestate tre anziane donne, rispettivamente
di 69, 74 e 81 anni. L’azione dei militari tedeschi, iniziata nell’ex
ghetto già nella notte, poteva dirsi conclusa, in tutta la città,
già intorno alle due del pomeriggio. Tutti gli ebrei arrestati furono
trasportati con camion coperti al Collegio Militare in via della Lungara, a poche
centinaia di metri dal Vaticano. Lì vennero registrati e, dopo la liberazione
di 252 persone escluse dalla deportazione perché non ebree o non rientranti
nelle liste in mano ai Tedeschi, ne rimasero 1014, destinate poi, il 18 ottobre,
ad essere portate alla stazione Tiburtina, dove furono rinchiusi in 28 vagoni
diretti ad Auschwitz. Proprio quella mattina nacque un bambino, figlio di Marcella
Perugia, che viaggiò, anche lui, insieme ad altri 244 bambini. Il lungo
viaggio si concluse il 23 ottobre e già il giorno successivo la maggior
parte degli arrestati fu destinata alle camere a gas. Solo 149 uomini e 47 donne
superarono all’arrivo la prima selezione. E alla fine della guerra si conteranno
soltanto 17 sopravvissuti, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Eppure
la deportazione di oltre mille persone non fu considerata “soddisfacente” dal
comando tedesco: in alcuni documenti trovati alla fine della guerra, risulta
che l’obiettivo era di deportare 8000 ebrei.
La famiglia Efrati, ricordata in queste pietre, è un esempio significativo
di famiglia romana di fede ebraica perfettamente integrata dopo l’apertura
del ghetto nel 1870, quando aveva ottenuto gli stessi diritti civili del resto
della popolazione italiana. La famiglia era formata da Giuseppe, nato a Cassino
il 7 maggio 1880 e da sua moglie Clara Baroccio, nata a Roma il 20 settembre
1891. Dal loro matrimonio era nati due figli: Augusto ed Andreina.
Giuseppe era un ufficiale dell’Esercito Italiano quando nel 1938, con la
proclamazione delle leggi razziali, venne obbligatoriamente posto in congedo
assoluto. Questo gli procurerà il doppio trauma di vivere la mancanza
di un lavoro, ma soprattutto l’esclusione dalla comunità civile
ancora di più sentito dai molti cittadini ebrei che avevano proprio nell’esercito
trovato il modo di servire al meglio la nazione italiana che aveva loro concesso
piena cittadinanza. Con l’entrata in guerra nel 1940, si ripresenta al
proprio distretto militare per mettersi a disposizione, ma la sua competenza
non viene presa in considerazione.
La vita continua nonostante le difficoltà e l’emarginazione subite.
Proprio nell’estate del ’43 Giuseppe e la moglie vanno in vacanza
a Fiuggi: un breve e rarissimo filmato amatoriale li ritrae poco prima della
deportazione insieme ai loro familiari. Come tutti i suoi membri, anche i coniugi
Efrati contribuiscono alla raccolta del cosiddetto “ora di Roma”,
50 chili d’oro da recuperare in due giorni, richiesto il 26 settembre dalle
autorità tedesche alla Comunità ebraica, per scongiurare la deportazione
di duecento capifamiglia.
Il 16 ottobre Giuseppe Efrati e Clara Baroccio pur essendo stati avvisati, anche
nei giorni precedenti, del rischio di cattura, tardano nel fuggire. Proprio davanti
al portone sono fermati dai tedeschi. Come tutte le vittime del rastrellamento
sono rinchiusi nel Collegio Militare di via della Lungara e, il 18 ottobre, salgono
insieme agli altri sul treno merci allestito alla stazione Tiburtina. Con loro
ci sono anche Virginia Baroccio, sorella di Clara, e suo marito Augusto Piperno,
che abitavano in viale Giulio Cesare 223, a poca distanza da via Germanico. Un
bigliettino, abbandonato alla stazione e consegnato in seguito ai loro cari,
afferma che: « Partono sereni». Giuseppe sarà ucciso all’ arrivo
ad Auschwitz il 23 ottobre 1943, sorte comune, con tutta probabilità,
accadrà anche alla moglie Clara.
La terza pietra d’inciampo ricorda il figlio di Giuseppe e di Clara Efrati:
Augusto.
Augusto era nato a Castel Gandolfo il 24 agosto 1916 ed era un giovane ufficiale
dell’Esercito italiano, agli inizi della sua carriera quando, in seguito
alle leggi razziali del 1938, era stato escluso, come il padre e tutti gli altri
militari di fede israelita, dal proseguire il servizio per il suo Paese. Costretto
al congedo assoluto, colpito come tutti i cittadini ebrei nei propri diritti
e nella propria dignità, negli anni seguenti Augusto lavora insieme Lamberto
Abbina, commerciante nonché suo cognato in quanto marito di sua sorella
Andreina. Anche il cognato è ebreo e, con le leggi razziali, ha ceduto
le sue attività commerciali ad alcuni amici fidati e disponibili, iniziativa
che gli permette di continuare a guadagnare da vivere per sé e la sua
famiglia.
Il 16 ottobre ‘43, non si sa in che modo, Augusto sfugge alla razzia; di
certo vive in clandestinità da quel giorno fino al momento dell’arresto,
anche perché, probabilmente a partire dal 10 settembre con l’occupazione
tedesca, era attivo, forte della sua formazione militare, nella Resistenza romana.
Il 16 aprile 1944 fu arrestato dalla polizia italiana in seguito ad una delazione
e imprigionato a Regina Coeli. Successivamente fu trasportato a Fossoli, il campo
di concentramento e di transito, allestito nei pressi di Carpi per quanti erano
destinati ai campi di sterminio in Germania. Il suo nome, infatti, compare in
una lista del 16 maggio 1944 riguardante anche 11 ebrei “ceduti” ai
tedeschi perché fossero deportati: la lista era stata redatta dalla questura
di Roma guidata da Pietro Caruso, ricordato anche per la collaborazione fornita
nel preparare l’elenco delle vittime destinate alle Fosse Ardeatine. Da
Fossoli, il 26 giugno, Augusto fu deportato ad Auschwitz, in seguito, fu trasferito
nel lager di Gross Rosen, a 60 chilometri da Breslavia, dove i prigionieri erano
sfruttati presso industrie di prodotti chimici e materiale bellico. Proprio alla
fine del 1944, Gross Rosen conteneva circa 35.000 prigionieri; il campo fu liberato
dall’esercito russo il 14 febbraio 1945, ma Augusto sopravvisse solo pochi
giorni dopo la liberazione: morì, infatti, il 19 marzo di quello stesso
anno.
In questa narrazione deve trovare anche spazio la vicenda di Andreina, sorella
di Augusto e figlia di Giuseppe e Clara. Al momento del 16 ottobre Andreina, è la
sposa di Lamberto Abbina, già ricordato, ed è madre di due bimbi:
Lello e Piero. La famiglia Abbina vive poco distante dai coniugi Efrati nella
stessa via Germanico. Con loro, nonostante i divieti delle leggi formulati nel ’38,
vivono una donna di servizio “ariana” , Elena Antonini, e ad una
governante ricordata nelle memorie famigliari come la “signorina Montessori”,
in quanto diplomata, come la stessa Andreina, nell’importante metodo pedagogico.
In quel periodo i coniugi Abbina, messi sull’ avviso pochi giorni prima
del 16 ottobre, possono contare su una rete di sostegno che, attraverso la fornitura
di documenti falsi ed alloggi, li proteggerà risparmiando loro la vita.
Elena e la “signorina Montessori”, non abbandoneranno mai la famiglia
continuando a seguirla nella clandestinità, pur rischiando la vita, come
tutti coloro che a quel tempo aiutavano un ebreo. Un altro nome è doveroso
ricordare in questa pagina di solidarietà: quello di Nicandro Franchitti,
un impiegato del Comune che aiutò, senza forma alcuna di ricompensa, Lamberto
Abbina e la sua famiglia in quei mesi in cui vissero nascosti.
Il 24 maggio 2011 Nicandro Franchitti è stato onorato come “Giusto
tra le nazioni” e ai suoi discendenti sono stati consegnati la medaglia
e l’attestato dello Yad Vashem.
Noi della 3L siamo andati davanti al portone e ci siamo fermati a osservare le
pietre d’inciampo. Appena arrivati c’è stato un momento di
silenzio, cosa strana per la nostra classe. Eravamo colpiti nel vedere davanti
ai nostri occhi il ricordo di queste persone pienamente integrate nella comunità italiana
fino al 1938, che vennero deportate e sterminate con l’occupazione tedesca:
in pochi anni si era giunti dalla negazione dei diritti civili, sancita dalle
leggi razziali, alla negazione delle loro esistenze.
Da quel momento ognuno di noi, quando passa lì davanti, evita di calpestare
le pietre d’inciampo perché è come calpestare di nuovo la
vita di queste persone.
Bibliografia
Per il progetto “ Pietre d’inciampo” riguardante Via Germanico
96, abbiamo consultato le seguenti opere:
- Per i dati riguardanti Clara Baroccio, Giuseppe e Augusto Efrati: Liliana Picciotto
Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945),
Mursia, Milano 1991, in particolare pp. 42, 50-51, 64-65, 126 (dati biografici
su Clara Baroccio), 255 (dati biografici su Augusto Efrati), 256 (dati biografici
su Marco Giacomo Giuseppe Efrati).
- Per il 16 ottobre 1943: Giacomo Debenedetti, 16 ottobre
1943, Einaudi, Torino
2001; Roma 16 ottobre 1943: Anatomia di una deportazione, Silvia Haia Antonucci
, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Guerrini e associati,
Milano 2006, in particolare pp. 45 - 51.
- Per le vicende riguardanti l’espulsione dei militari di fede ebraica,
in seguito alle leggi razziali del 1938: Marco Mondini, L’identità negata:
Materiali di lavoro su ebrei ed esercito, in Gli ebrei
in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione post bellica, a cura di Ilaria Pavan e Guri Schwarz,
Giuntina, Firenze 2001, pp. 141 - 170.
- Il documento di deportazione a Fossoli di Augusto Efrati è edito in
Amedeo Osti Guerrazzi, La “Repubblica Necessaria”. Il fascismo
repubblicano a Roma 1943-44, Angeli, Milano 2004, pp. 145-146
- Fra i tanti libri dedicati ai lager abbiamo consultato, soprattutto, Alessandra
Chiappano, I lager nazisti – Guida storico-didattica, Giuntina, Firenze
2007.
- Le foto di Marco Giacomo Giuseppe Efrati, di sua moglie Clara Baroccio e del
loro figlio Augusto sono presenti nel Fondo Massimo Adolfo Vitale che raccoglie
quanto raccolto dal Comitato Ricerche Deportati Ebrei e sono consultabili all’indirizzo:
http://www.cdec.it/voltidellamemoria
- Un frammento di un prezioso filmato che ritrae i coniugi Efrati poco tempo
prima del 16 ottobre è stato trasmesso nel servizio “Liberi a Roma” di
Alessandro Di Marco e Piera Di Segni all’interno della trasmissione “Sorgente
di vita” del 7 giugno 2009.
- Abbiamo inoltre avuto la fortuna di incontrare Piero Abbina, il figlio di Lamberto
e di Andreina, che nei giorni dell’occupazione tedesca aveva poco più di
un anno e che ha voluto posare queste pietre in ricordo dei propri cari. La sua
testimonianza, che ha attinto alle memorie dei genitori e di tutta la sua famiglia, è stata
particolarmente importante e preziosa e lo ringraziamo per la disponibilità.
Camilla Fallai, Simona Salvatori Wilga, Irene Sbardella,
classe III L, scuola superiore di I grado “Giuseppe Gioachino
Belli”, Roma
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