2010 Scuola superiore di I grado Giuseppe Gioachino Belli (XVII Municipio) - Roma
   

Liceo Ginnasio
Ennio Quirino Visconti
Roma

 

Scuola Media
G. Gioacchino Belli
Roma

 
Scuola Elementare
Ada Negri
Roma
 
Liceo Artistico
Giorgio De Chirico
Roma
 

Istituto di Stato per la
Cinematografia e la Televisione Roberto Rossellini
Roma

 
Scuola primaria di Villa Pitignano,
8° Circolo Didattico
Perugia
 
 
 
 
 
 
 
Le “pietre d'inciampo” davanti alla caserma dei Carabinieri di viale Giulio Cesare (vai alla scheda)

7 ottobre 1943

Le vicende sulle quali ci siamo soffermati quest'anno, grazie al progetto “Pietre d'inciampo”, sono state a lungo ignorate non solo nei nostri libri scolastici, ma anche dagli stessi specialisti di questo periodo storico e, solo negli ultimi anni, riportate alla luce. Esse si inquadrano nella situazione di sbandamento e terrore che coinvolse l'Italia dopo l'8 settembre ‘43, quando fu invasa dalle  forze armate dell'ex alleato, la Germania, ma hanno una loro particolarità, proprio per l'oblio e lo scarso interesse di cui furono oggetto, per cui non furono ricordate per tanti decenni.

Tutto ha inizio con l'8 settembre 1943, quando subito  dopo l'annuncio dell'armistizio con gli anglo-americani, ed il conseguente sbandamento dei reparti militari presenti nella penisola o nei territori controllati dall'esercito italiano, anche molti carabinieri, al pari di tante persone sia civili che militari, reagirono spontaneamente all'immediata occupazione dell'Italia centro-settentrionale da parte dei Tedeschi [1] . Tra gli episodi più significativi che videro i carabinieri in prima linea, ricordiamo le due giornate in difesa di Roma l'8 e il 10 settembre, dove combatterono e morirono il capitano Orlando de Tommaso, che comandava la 4° compagnia, e il carabiniere Antonio Colagrossi. Altri invece, sempre a Roma, si unirono poco dopo, una volta diventata Roma una “città aperta”, al Fronte Militare Clandestino guidato dal generale Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo [2] , sotto il comando del generale dei carabinieri Filippo Caruso, altri ancora, in modo individuale ma sempre più frequente, scelsero di disertare. Ai pochi carabinieri rimasti in servizio fu invece affidata, in linea con le convenzioni internazionali, solo la funzione di controllo dell'ordine pubblico agli ordini della potenza occupante. Sono proprio questi i  reparti che furono catturati ed in seguito deportati il 7 ottobre 1943 con la seguente modalità: la sera precedente tutti i carabinieri in servizio ricevettero l'ordine di dormire in caserma. L'indomani furono rapidamente adunati, disarmati e consegnati a reparti di paracadutisti tedeschi che avevano circondato gli edifici. I tentativi di fuga furono bloccati sul nascere e tutti gli appartenenti all'Arma furono trasportati con autocarri alle stazioni di Roma Ostiense e Roma Trastevere, da dove furono tutti deportati in carri di bestiame verso la Germania, l'Austria e la Polonia.

Non é certo quanti furono in tutto i carabinieri deportati ma secondo dati di fonte italiana il loro numero oscilla fra i 1500 e i 2 mila, mentre le fonti tedesche parlano invece di più di 2 mila deportati. [3] Pochi furono i carabinieri che furono rilasciati quel giorno, tutti ufficiali che poterono contare sull'intercessione di qualche autorità. L'episodio qui descritto fu doppiamente brutale perché l'ordine di arrestare e deportare gli appartenenti all'Arma fu eseguito dal generale di brigata Casimiro Delfini, in ottemperanza ad un comando del maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana,  d'intesa con il comando tedesco a Roma, dove si stava affermando la figura del col. Herbert Kappler. Secondo la storica Anna Maria Casavola che ha, con passione e pazienza, riportato alla luce e ricostruito questa vicenda, che può veramente essere definita “una deportazione dimenticata” [4] , l'ordine di catturare i Carabinieri e deportarli fu dato proprio per assecondare il colonnello Herbert Kappler,  con l'obiettivo di eliminare i possibili ostacoli al piano di deportazione dei cittadini romani di fede ebraica,  deportazione che fu realizzata pochi giorni dopo, il 16 ottobre 1943 [5] . Al di là di questa ipotesi, condivisibile, rimane il fatto che Roma rimase priva, in un sol colpo, di uno dei pochi punti di riferimento e di tutela per la popolazione dell'intera città che si avviava a conoscere, in un crescendo di lotte e paure,  giorni sempre più duri e feroci.

Gli internati militari italiani

Nei lager dove furono destinati, tutti i carabinieri, indistintamente, subirono la sorte che era stata riservata agli altri militari già catturati dopo l'8 settembre. In gran massa, infatti, i soldati italiani rifiutarono di collaborare con le truppe di occupazione naziste e subirono per questo o l'immediata uccisione, come nel caso della divisione Acqui massacrata,  massacrata in massa a Cefalonia (13-28 settembre1943) o furono internati nei campi di prigionia, presenti nei territori controllati dal terzo Reich [6] . Ai soldati italiani non fu riconosciuto lo status di prigionieri di guerra perché le autorità tedesche, in accordo con i vertici della Repubblica sociale italiana, li qualificarono con il termine di Internati Militari Italiani (I.M.I). In questo modo la loro condizione era diversa da quella di tutti gli altri militari prigionieri, appartenenti alle altre nazioni, e non potevano essere soccorsi dalla Croce Rossa Internazionale e dagli altri organi di assistenza, come era invece stabilito dalla convenzione internazionale di Ginevra del 1929.

Non è noto con esattezza quanti furono i soldati internati:  il loro numero è stimato intorno ai 710 mila, di cui più di 60 mila non fecero più ritorno a casa, ma si tratta di cifre indicative. Al pari degli altri militari, i carabinieri, trasportati in carri bestiame, raggiunsero i loro campi di prigionia in Germania o in Austria se soldati semplici e sottoufficiali; generalmente in Polonia se ufficiali. Proprio all'arrivo nei lager, in uno spiazzo recintato da reticolati e circondato da torrette munite di mitragliatrici, tutti i militari, già duramente provati dalla cattura e da un viaggio lungo e disagiato, subivano il rapido processo di spersonalizzazione comune a tutti i deportati: ad ognuno di essi veniva assegnata una piastrina di riconoscimento con la matricola e la sigla del campo e solo quel numero avrebbe identificato da quel momento in poi l'internato nel corso della sua prigionia. Sempre al momento dell'ingresso venivano  sequestrati ai reclusi denaro e beni, era inoltre vietato conservare la bandiera italiana, un divieto di nessun valore pratico, ma di forte valore simbolico, in quanto finalizzato a privarli della loro identità Infatti ogni uomo in questo luogo diventava un numero, senza nessuna altra fisionomia come riportano gli IMI nei loro diari. [7]

Questo stato di cose era esasperato dall'ordine del ''terrore nazista'' la cui violenza era esercitata sistematicamente  dai carcerieri, all'interno della logica del  funzionamento dei lager. Il sistema di reclusione era contraddistinto dalla fame, dal freddo, dalla sporcizia, dal lavoro pesante e dal vuoto di lunghi giorni uguali a se stessi, allo scopo di ridurre i detenuti all'inattività e al silenzio. Le baracche più grandi arrivavano ad ospitare centinaia di uomini, e al loro interno, come dice Pietro Testa,  internato nel campo di Wietzendorf, nella bassa Sassonia: «L'ambiente della camerata riusciva oltremodo deprimente; buio per mancanza di sufficienti finestre,   incupito maggiormente dal grigio scuro fumoso delle pareti, e dalle due stufe che precludevano qualsiasi luce al centro, stipato di castelli e di uomini, costringeva la maggior parte dei suoi occupanti a starsene appiattiti nei castelli» [8] . Le baracche dove gli internati erano sistemati affacciavano sul piazzale, dove si svolgevano gli appelli e si effettuava la  propaganda. Proprio il momento dell'appello costituiva una delle fasi più dure della giornata, le adunate per il controllo, infatti,  duravano quasi sempre un'ora e mezza e più ed in quel freddo, fango e debolezza, parecchi cadevano per terra per assideramento. Se al momento dell'appello inoltre, la conta non tornava era obbligatorio rifarla.

In contrapposizione alla quasi totale assenza di cure mediche e di cibo, fiorente era il mercato nero e il baratto per un pezzo di pane. Ai costanti maltrattamenti, agli insulti razzisti loro destinati (Italiener? Banditen!)  ed alle atrocità inflitte [9] , si aggiunse anche l'obbligo, per tutti i soldati semplici ed i sottufficiali, del lavoro coatto nei campi e nell'industria. Il carabiniere Abramo Rossi, catturato a Roma il 7 ottobre nella caserma di viale Giulio Cesare, ricorda così in una sua preziosa ed importante testimonianza, l'internamento ed il lavoro che dovette affrontare per quasi 20 mesi : «Io venni assegnato alla fonderia Hermann Goering situata nel capoluogo di Loeben Donawitz […] il lavoro consisteva nel preparare materiale ferroso destinato agli altiforni […] per raggiungere il lavoro in tempo utile, bisognava partire dal campo almeno due ore prima […] percorrere alcuni chilometri a piedi, poi imbarcarsi sul treno dalla stazione ferroviaria di Trofaiach […] e raggiungere la fabbrica. Si seguivano due turni di lavoro, uno aveva inizio alle ore sei e terminava alle diciotto, l'altro aveva inizio alle ore diciotto e terminava alle sei del giorno successivo […]. Durante il primo turno era prevista una breve sosta per consumare una piccola colazione di cui potevano beneficiare soltanto i civili giacché a noi prigionieri nulla era dovuto […]. Durante il turno pomeridiano - notturno si poteva usufruire della mensa aziendale, dove veniva distribuita ai prigionieri una mezza gavetta di brodaglia composta di rape e carote » [10] . Gli ufficiali, esonerati dal lavoro obbligatorio in base alla Convenzione di Ginevra, erano spesso sottoposti a pesanti umiliazioni affinché si piegassero anche loro a lavorare. Così scriveva nel suo campo di prigionia lo scrittore Giovanni Guareschi, all'epoca internato militare: «mi dedico ad un programma preciso: non muoio neanche se mi ammazzano!» [11] .

In modo frequente nei campi di internamento si svolgevano adunate di propaganda, per convincere i soldati ad aderire all'esercito della Repubblica Sociale Italiana. Non è ancora stato stabilito con certezza il numero esatto di coloro che anche dopo l'armistizio continuarono a combattere per Hitler e Mussolini e che sono indicati con il termine di “optanti”. Anche in questo campo la ricerca storica è stata avara di indagini e approfondimenti, e i primi studi hanno stimato il fenomeno intorno al 1-2 % della totalità degli internati [12] . Negli ultimi tempi si è parlato invece di una cifra vicino ai 200.000 [13] , ma l'intera vicenda è difficile da ricostruire perché il silenzio che l'avvolge è scaturito da motivi di vergogna, di opportunità e di disinteresse generale nei confronti degli optanti; i diari e le memorie degli internati  che non accolsero questo invito fanno chiaramente capire che la ragione principale di questa scelta fu dovuta essenzialmente alla fame [14] .

 Le molte testimonianze ci parlano invece di una cosciente ed individuale presa di posizione che spinse la stragrande maggioranza degli internati, nonostante le continue sofferenze e vessazioni - molti internati morirono ad esempio nel corso dei numerosi bombardamenti aerei subiti nelle  fabbriche dove lavoravano, perché era loro vietato di recarsi nei rifugi - a non aderire ad un esercito che rappresentava la negazione dei più elementari diritti umani.

Il lager divenne anzi, per molti di loro, cresciuti ed educati in piena era fascista, il luogo di una diversa e nuova consapevolezza politica: «l'esperienza drammatica della prigionia, sommata a quella precedente della guerra, li spinse come minimo alla più elementare repulsione verso ogni forma di dittatura e di privazione della libertà» [15] .

Proprio nei lager quindi, come ha detto un importante storico, Vittorio Emanuele Giuntella, anch'egli ex internato, tutti, compresi i carabinieri, divennero «dei resistenti che presero su di loro l'onore e la dignità di un paese» ed il lager stesso divenne luogo dell'«affermazione di valori morali che sono sempre da difendere, quando tutto è perduto» [16] .

Il ritorno a casa ed il difficile dopoguerra

Per gli internati, sopravvissuti a venti mesi di prigionia, la fine della guerra non significò la fine delle sofferenze e delle amarezze, perché non furono  né accolti come meritavano dalle istituzioni, né  “capiti”. Tradotti e deportati in Germania nel pieno delle forze, al loro ritorno apparivano incipientemente invecchiati, poco più che scheletrici, malati, deboli e soli. Mentre il governo riconosceva ufficialmente il contributo dei partigiani alla guerra di Liberazione, per questi Carabinieri, come per tutti gli internati militari,  il ritorno fu amaro. Lo ricorda in una nota il maggiore dell'Arma, Alfredo Vestuti: « Un facchino, per trasportare il bagaglio fino a casa mia, distante poco più di un chilometro, mi chiede mille lire. Non posseggo una tal somma; comunque la richiesta mi mortifica. Mi carico sulle spalle curve e dolenti il sacco da montagna e mi incammino verso casa, solo, stanco, con il cuore amaro per il rammarico di essermi troppo illuso, quando ero ancora lassù. » [17]

Oppure, al loro ritorno a casa, erano circondati da una indifferenza che feriva nel profondo: «Al distretto mi hanno dato il congedo, scritto a mano, il rimborso, poche lire, e tutto nell'indifferenza generale» [18] . Però, era pur vero che in quel periodo l'Italia era una nazione in ginocchio e ancora non era stato costruito nulla. Si rischiava una guerra tra poveri, e gli ex internati, che dovevano lasciarsi il dolore alle spalle, lo vedevano riaffiorare invece ogni giorno con gli atteggiamenti di una società egoista, non solidale, indifferente e ostile a questi uomini. Solamente più di cinquant'anni dopo, nel 1998 fu conferita la medaglia d'oro all'Internato Ignoto dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un tempo troppo lungo per chi è ritornato e non è stato ascoltato.

In questa Italia da ricostruire, i Carabinieri ebbero inoltre un altro merito, che nessuno ha mai riconosciuto: la raccolta scrupolosa, verbale dopo verbale, testimonianza dopo testimonianza  in una lunga e infinita sequenza di nomi, raffiche di mitra, di ordini assassini, di sangue, di morte, delle  stragi nazifasciste dell'Italia occupata dal settembre 1943 al maggio 1945. Un giornalista dell'Espresso, Franco Giustolisi, racconta nel suo libro L'armadio della vergogna [19] come questi verbali redatti dai Carabinieri furono messi in un armadio con le ante rivolte verso il muro e abbandonato in un sottoscala per impedire i giusti processi e avviare un processo di pace e di memoria che ancora il nostro Paese aspetta. Proprio da questa inchiesta emerge la responsabilità di Enrico Santacroce, procuratore generale militare nel 1960, che con un timbro ed una generica indicazione di «archiviazione provvisoria» stabilì, d'accordo con i vertici del governo italiano e nel clima della guerra fredda Est e Ovest, di dimenticare quei 695 fascicoli riguardanti le stragi naziste in Italia. Enrico Santacroce aveva già affrontato anni prima una situazione simile: nel 1948 e, poco dopo, nel 1950, in due distinti processi aveva fatto parte delle commissioni giudicanti l'operato del generale Delfini e del maresciallo Graziani, riguardanti anche le loro oggettive responsabilità nella deportazione dei Carabinieri. Delfini, in particolare, già assolto per insufficienza di prove, aveva fatto ricorso alla sentenza ottenendo che l'assoluzione fosse motivata «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato». Anche il maresciallo Graziani, nel 1950, fu assolto dall'accusa di aver: «ordinato il disarmo dei carabinieri che si trovavano a Roma nell'ottobre 1943 perché pur essendosi stabilita la materiale sussistenza dei fatti, si è escluso che essi siano stati commessi nell'intento di favorire il tedesco» [20] . Questo atteggiamento, da parte di chi aveva importanti responsabilità, ha così contribuito a impedire che la verità  fosse ricercata e  ha fatto sì che tutti questi tragici avvenimenti, vissuti dall'Italia nel corso del periodo settembre 1943 – aprile 1945, non divenissero un comune patrimonio ricordato con la stessa intensità ed emozione dalle future generazioni dell'Italia repubblicana.

Il valore di queste pietre. La nostra memoria

«Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via,/ Coricandovi, alzandovi./ Ripetetele ai vostri figli/ O vi si sfaccia la casa,/ La malattia vi impedisca,/ I vostri nati torcano il viso da voi».

  Sembra che Gunther Demnig, nel realizzare le sue installazioni in memoria dei deportati morti nei campi di sterminio, abbia avuto proprio  in mente il seguente verso: «Stando in casa, andando per via» presente nella poesia Shemà che precede il capolavoro-testimonianza di Primo Levi, Se questo è un uomo (scritto dall'autore tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947), come per dire a tutti che è importante che nessuno dimentichi queste tragedie, che intralciano il corso della storia. E questo è ancora più importante adesso che la memoria dei testimoni si affievolisce.

Vicino la nostra scuola media la “Giuseppe Gioachino  Belli” è presente la caserma della Legione allievi Carabinieri ora intitolata a Orlando De Tommaso, un capitano dell'Arma morto nel corso dei combattimenti che la popolazione romana, sia civile che militare, sostenne all'ingresso delle truppe tedesche nella capitale, nel corso della difesa di Roma (10 settembre 1943). A questa caserma appartenevano i carabinieri che sono ricordati in queste “pietre d'inciampo” e, come ci hanno voluto insegnare prima Levi e poi Demnig, la memoria dei loro nomi, ha un'importanza fondamentale per noi, per non dimenticare il loro sacrificio e le nostre radici storiche.

Ecco i loro nomi: Giacomo Bocci, di 27 anni,  morto a Dachau per tifo il 3 maggio 1945; Nicola Cicchiello  e  Francesco Papeo, morti entrambi a 20 anni di tubercolosi a Wolsfsberg, rispettivamente  il 16 aprile 1944 e il  4 maggio 1944; Attilio Bellagamba, di 22 anni, anch'egli morto a Wolfsberg di meningite il 1° giugno 1944; Vito Marziliano, di 21 anni, morto a Freising di tubercolosi; Nobile Fimiani, di circa 20 anni, ucciso da un soldato tedesco per una rappresaglia nel campo n. 3662  a Monaco di Baviera; Antonio  Pietromicca, di 20 anni, morto a Graz Puntigam per un bombardamento aereo il 1° aprile 1945; Luigi Ettore Marchetto, di 20 anni, morto a Wolfsberg per pleurite nel luglio 1944; Valdo De Santis, di 21 anni, morto in Austria nello Straf lager n. 55 per maltrattamenti nel marzo 1945; Michele Croccuccio, di 20 anni, morto a Monaco di Baviera nel corso di un bombardamento, il 12 settembre 1944; Armando Zanco, morto a Brundorf Marburg per annegamento il 19 luglio 1944; Efisio Rosas, di 35 anni, ucciso da una sentinella tedesca nei pressi di Attigliano (in provincia di Terni), mentre cercava di scappare, l'8 ottobre del '43, dal treno che lo stava conducendo in Germania [21] . E i nomi ricordati  in queste “pietre d'inciampo”,  per fare solo un esempio quelli di  Nicola Cicchiello, Armando Zanco, Efisio Rosas, Valdo de Santis, Michele Croccuccio, ci dicono subito una cosa essenziale, ossia ci ricordano come i carabinieri deportati e poi morti in campi d'internamento tedeschi ed austriaci provenivano da tutte le parti d'Italia: dal Veneto, dalla Sardegna, dall'Abruzzo, dalla Puglia. Tutto questo a testimonianza del comune  rifiuto che la maggior parte dei militari oppose a continuare l'alleanza con il Terzo Reich e a collaborare con questo e la Repubblica di Salò. I loro nomi, incisi e incastrati nel marciapiede davanti alla caserma, assieme ad un'ulteriore pietra d'inciampo in memoria di tutti i carabinieri “senza nome” morti nel corso del lungo internamento, sono come un importante e simbolico, anche se tardivo: «ben tornati a casa». Da parte nostra, l'aver collaborato a questo progetto ha significato non solo un modo per rendere omaggio a tutti i soldati italiani internati, e con loro a tutti gli altri deportati, ma anche la maniera migliore per dire che la loro storia non è stata dimenticata e che noi siamo  diventati, adesso, “portatori sani” della loro memoria.

[1]  Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando: l'armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze , 2 ed., Il Mulino, Bologna  2003.
[2] Sabrina Sgueglia della Marra, Montezemolo e il Fronte Militare Clandestino, Stato maggiore dell'Esercito. Ufficio Storico, Roma 2008, in particolare pp. 153-158.
[3] I dati sono ricordati in Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, Edizioni Studium, Roma 2008, p. 28
[4] Anna Maria Casavola, Una deportazione dimenticata, in Identità, Diversità, Memoria, a cura di Liliana Di Ruscio, Rita Gravina, Bice Migliau, Sandra Terracina, Roma 2009, pp. 109-111.
[5] Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943 1943…, cit., p. 9 che ricorda la documentazione resa pubblica degli archivi americani dalla quale emerge la precisa richiesta formulata in tal senso dal col. Kappler.
[6] Gerhard Scheriber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del III Reich, 1943- 1945, Stato maggiore dell'Esercito – Ufficio storico, Roma 1997.
[7] Alcune testimonianze  in Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943 -1945, Einaudi, Torino 2009, p. 120
[8] Ricordato in Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. cit., p. 122.
[9] Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943.., cit., pp. 46-52
[10] Anna Maria Casavola, Una deportazione dimenticata, cit., 112. Abramo Rossi è stato anche ospite della nostra scuola dove ha incontrato la nostra classe per una lunga e appassionata testimonianza per la quale  lo vogliamo di nuovo ringraziare.
[11] Giovanni Guareschi, Il grande Diario Rizzoli, Milano 2008, pp. 294-295.,
[12]   In alcuni studi il numero di coloro che non aderirono alla Repubblica di Salò è pari al 98,7%, vedi L'esercito italiano dall'armistizio alla Guerra di Liberazione 8 sett. 1943 – 25 aprile 1945, a cura di Filippo Cappellano – Salvatore Orlando, Stato maggiore dell'Esercito. Ufficio Storico, Roma 2005, p. 177. pari al 98,7 % degli internati.
[13] Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. cit.,  p.91.
[14] Questa una testimonianza ricordata in Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. cit. p. 96: «Quando (i soldati) da quattro mesi soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi; quando essi hanno dovuto, prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce, e poi divorare le bucce stesse; quando sono stati messi nella condizione di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli di rancio per raccogliere con le mani o con il cucchiaio, gli avanzi melmosi della ‘sbobba' […] quando essi si sentono da tutti abbandonati e sul loro animo e sui loro cuori premono particolari situazioni di famiglia, un giudizio veramente sereno sulla grave decisione da loro presa non può essere formulato. Solo chi ha sofferto, soffre e sopporta queste cose può comprendere. Ed io penso che, per questi uomini, indeboliti nel fisico, nel morale e nella volontà, accettare il ricatto loro sottoposto sia stato solamente considerato come mezzo di liberazione».
[15] Giorgio Rochat, Introduzione in  Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. cit.,  p. LVII
[16] Vittorio Emanuele Giuntella, Considerazioni finali, in Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), a cura di Nicola Labanca, Le Lettere, Firenze 1992, p. 350.
[17] Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943…, cit., p.109
[18] Ibid., p. 111.
[19] Franco Giustolisi, L'Armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma, 2004.
[20] Entrambe le notizie in  Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943…, cit., p 18
[21] I loro nomi sono noti da un elenco scritto il 5 settembre 1946 dall'ufficio della Legione Allievi Carabinieri e riportato nell'inserto fotografico in Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943 …, cit., n. 21

classe III L
gli studenti:
L. Jeric Bernard Aquino
Fabio Castelli Avolio
Andrea Cicero
Federico Martini
Francesca Minà
Elisabetta Vitullo

la  prof.ssa Hélène Angiolini