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Le “pietre
d'inciampo” davanti alla
caserma dei Carabinieri di viale Giulio Cesare (vai alla
scheda)
7 ottobre 1943
Le vicende sulle quali ci siamo soffermati quest'anno, grazie
al progetto “Pietre d'inciampo”, sono state a lungo
ignorate non solo nei nostri libri scolastici, ma anche dagli stessi
specialisti di questo periodo storico e, solo negli ultimi anni,
riportate alla luce. Esse si inquadrano nella situazione di sbandamento
e terrore che coinvolse l'Italia dopo l'8 settembre ‘43,
quando fu invasa dalle forze armate dell'ex alleato, la Germania,
ma hanno una loro particolarità, proprio per l'oblio e lo
scarso interesse di cui furono oggetto, per cui non furono ricordate
per tanti decenni.
Tutto ha inizio con l'8 settembre 1943, quando subito dopo
l'annuncio dell'armistizio con gli anglo-americani, ed il conseguente
sbandamento dei reparti militari presenti nella penisola o nei
territori controllati dall'esercito italiano, anche molti carabinieri,
al pari di tante persone sia civili che militari, reagirono spontaneamente
all'immediata occupazione dell'Italia centro-settentrionale da
parte dei Tedeschi [1] . Tra gli episodi più significativi
che videro i carabinieri in prima linea, ricordiamo le due giornate
in difesa di Roma l'8 e il 10 settembre, dove combatterono e morirono
il capitano Orlando de Tommaso, che comandava la 4° compagnia,
e il carabiniere Antonio Colagrossi. Altri invece, sempre a Roma,
si unirono poco dopo, una volta diventata Roma una “città aperta”,
al Fronte Militare Clandestino guidato dal generale Giuseppe Cordero
Lanza di Montezemolo [2] , sotto il comando del generale dei carabinieri
Filippo Caruso, altri ancora, in modo individuale ma sempre più frequente,
scelsero di disertare. Ai pochi carabinieri rimasti in servizio
fu invece affidata, in linea con le convenzioni internazionali,
solo la funzione di controllo dell'ordine pubblico agli ordini
della potenza occupante. Sono proprio questi i reparti che
furono catturati ed in seguito deportati il 7 ottobre 1943 con
la seguente modalità: la sera precedente tutti i carabinieri
in servizio ricevettero l'ordine di dormire in caserma. L'indomani
furono rapidamente adunati, disarmati e consegnati a reparti di
paracadutisti tedeschi che avevano circondato gli edifici. I tentativi
di fuga furono bloccati sul nascere e tutti gli appartenenti all'Arma
furono trasportati con autocarri alle stazioni di Roma Ostiense
e Roma Trastevere, da dove furono tutti deportati in carri di bestiame
verso la Germania, l'Austria e la Polonia.
Non é certo quanti furono in tutto i carabinieri deportati
ma secondo dati di fonte italiana il loro numero oscilla fra i
1500 e i 2 mila, mentre le fonti tedesche parlano invece di più di
2 mila deportati. [3] Pochi furono i carabinieri che furono rilasciati
quel giorno, tutti ufficiali che poterono contare sull'intercessione
di qualche autorità. L'episodio qui descritto fu doppiamente
brutale perché l'ordine di arrestare e deportare gli appartenenti
all'Arma fu eseguito dal generale di brigata Casimiro Delfini,
in ottemperanza ad un comando del maresciallo Rodolfo Graziani,
ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana, d'intesa
con il comando tedesco a Roma, dove si stava affermando la figura
del col. Herbert Kappler. Secondo la storica Anna Maria Casavola
che ha, con passione e pazienza, riportato alla luce e ricostruito
questa vicenda, che può veramente essere definita “una
deportazione dimenticata” [4] , l'ordine di catturare i Carabinieri
e deportarli fu dato proprio per assecondare il colonnello Herbert
Kappler, con l'obiettivo di eliminare i possibili ostacoli
al piano di deportazione dei cittadini romani di fede ebraica, deportazione
che fu realizzata pochi giorni dopo, il 16 ottobre 1943 [5] . Al
di là di questa ipotesi, condivisibile, rimane il fatto
che Roma rimase priva, in un sol colpo, di uno dei pochi punti
di riferimento e di tutela per la popolazione dell'intera città che
si avviava a conoscere, in un crescendo di lotte e paure, giorni
sempre più duri e feroci.
Gli internati militari italiani
Nei lager dove furono destinati, tutti i carabinieri, indistintamente,
subirono la sorte che era stata riservata agli altri militari già catturati
dopo l'8 settembre. In gran massa, infatti, i soldati italiani
rifiutarono di collaborare con le truppe di occupazione naziste
e subirono per questo o l'immediata uccisione, come nel caso della
divisione Acqui massacrata, massacrata in massa a Cefalonia
(13-28 settembre1943) o furono internati nei campi di prigionia,
presenti nei territori controllati dal terzo Reich [6] . Ai soldati
italiani non fu riconosciuto lo status di prigionieri di guerra
perché le autorità tedesche, in accordo con i vertici
della Repubblica sociale italiana, li qualificarono con il termine
di Internati Militari Italiani (I.M.I). In questo modo la loro
condizione era diversa da quella di tutti gli altri militari prigionieri,
appartenenti alle altre nazioni, e non potevano essere soccorsi
dalla Croce Rossa Internazionale e dagli altri organi di assistenza,
come era invece stabilito dalla convenzione internazionale di Ginevra
del 1929.
Non è noto con esattezza quanti furono i soldati internati: il
loro numero è stimato intorno ai 710 mila, di cui più di
60 mila non fecero più ritorno a casa, ma si tratta di cifre
indicative. Al pari degli altri militari, i carabinieri, trasportati
in carri bestiame, raggiunsero i loro campi di prigionia in Germania
o in Austria se soldati semplici e sottoufficiali; generalmente
in Polonia se ufficiali. Proprio all'arrivo nei lager, in uno spiazzo
recintato da reticolati e circondato da torrette munite di mitragliatrici,
tutti i militari, già duramente provati dalla cattura e
da un viaggio lungo e disagiato, subivano il rapido processo di
spersonalizzazione comune a tutti i deportati: ad ognuno di essi
veniva assegnata una piastrina di riconoscimento con la matricola
e la sigla del campo e solo quel numero avrebbe identificato da
quel momento in poi l'internato nel corso della sua prigionia.
Sempre al momento dell'ingresso venivano sequestrati ai reclusi
denaro e beni, era inoltre vietato conservare la bandiera italiana,
un divieto di nessun valore pratico, ma di forte valore simbolico,
in quanto finalizzato a privarli della loro identità Infatti
ogni uomo in questo luogo diventava un numero, senza nessuna altra
fisionomia come riportano gli IMI nei loro diari. [7]
Questo stato di cose era esasperato dall'ordine del ''terrore
nazista'' la cui violenza era esercitata sistematicamente dai
carcerieri, all'interno della logica del funzionamento dei
lager. Il sistema di reclusione era contraddistinto dalla fame,
dal freddo, dalla sporcizia, dal lavoro pesante e dal vuoto di
lunghi giorni uguali a se stessi, allo scopo di ridurre i detenuti
all'inattività e al silenzio. Le baracche più grandi
arrivavano ad ospitare centinaia di uomini, e al loro interno,
come dice Pietro Testa, internato nel campo di Wietzendorf,
nella bassa Sassonia: «L'ambiente della camerata riusciva
oltremodo deprimente; buio per mancanza di sufficienti finestre, incupito
maggiormente dal grigio scuro fumoso delle pareti, e dalle due
stufe che precludevano qualsiasi luce al centro, stipato di castelli
e di uomini, costringeva la maggior parte dei suoi occupanti a
starsene appiattiti nei castelli» [8] . Le baracche dove
gli internati erano sistemati affacciavano sul piazzale, dove si
svolgevano gli appelli e si effettuava la propaganda. Proprio
il momento dell'appello costituiva una delle fasi più dure
della giornata, le adunate per il controllo, infatti, duravano
quasi sempre un'ora e mezza e più ed in quel freddo, fango
e debolezza, parecchi cadevano per terra per assideramento. Se
al momento dell'appello inoltre, la conta non tornava era obbligatorio
rifarla.
In contrapposizione alla quasi totale assenza di cure mediche
e di cibo, fiorente era il mercato nero e il baratto per un pezzo
di pane. Ai costanti maltrattamenti, agli insulti razzisti loro
destinati (Italiener? Banditen!) ed alle atrocità inflitte
[9] , si aggiunse anche l'obbligo, per tutti i soldati semplici
ed i sottufficiali, del lavoro coatto nei campi e nell'industria.
Il carabiniere Abramo Rossi, catturato a Roma il 7 ottobre nella
caserma di viale Giulio Cesare, ricorda così in una sua
preziosa ed importante testimonianza, l'internamento ed il lavoro
che dovette affrontare per quasi 20 mesi : «Io venni assegnato
alla fonderia Hermann Goering situata nel capoluogo di Loeben Donawitz
[…] il lavoro consisteva nel preparare materiale ferroso
destinato agli altiforni […] per raggiungere il lavoro in
tempo utile, bisognava partire dal campo almeno due ore prima […]
percorrere alcuni chilometri a piedi, poi imbarcarsi sul treno
dalla stazione ferroviaria di Trofaiach […] e raggiungere
la fabbrica. Si seguivano due turni di lavoro, uno aveva inizio
alle ore sei e terminava alle diciotto, l'altro aveva inizio alle
ore diciotto e terminava alle sei del giorno successivo […].
Durante il primo turno era prevista una breve sosta per consumare
una piccola colazione di cui potevano beneficiare soltanto i civili
giacché a noi prigionieri nulla era dovuto […]. Durante
il turno pomeridiano - notturno si poteva usufruire della mensa
aziendale, dove veniva distribuita ai prigionieri una mezza gavetta
di brodaglia composta di rape e carote » [10] . Gli ufficiali,
esonerati dal lavoro obbligatorio in base alla Convenzione di Ginevra,
erano spesso sottoposti a pesanti umiliazioni affinché si
piegassero anche loro a lavorare. Così scriveva nel suo
campo di prigionia lo scrittore Giovanni Guareschi, all'epoca internato
militare: «mi dedico ad un programma preciso: non muoio neanche
se mi ammazzano!» [11] .
In modo frequente nei campi di internamento si svolgevano adunate
di propaganda, per convincere i soldati ad aderire all'esercito
della Repubblica Sociale Italiana. Non è ancora stato stabilito
con certezza il numero esatto di coloro che anche dopo l'armistizio
continuarono a combattere per Hitler e Mussolini e che sono indicati
con il termine di “optanti”. Anche in questo campo
la ricerca storica è stata avara di indagini e approfondimenti,
e i primi studi hanno stimato il fenomeno intorno al 1-2 % della
totalità degli internati [12] . Negli ultimi tempi si è parlato
invece di una cifra vicino ai 200.000 [13] , ma l'intera vicenda è difficile
da ricostruire perché il silenzio che l'avvolge è scaturito
da motivi di vergogna, di opportunità e di disinteresse
generale nei confronti degli optanti; i diari e le memorie degli
internati che non accolsero questo invito fanno chiaramente
capire che la ragione principale di questa scelta fu dovuta essenzialmente
alla fame [14] .
Le molte testimonianze ci parlano invece di una cosciente
ed individuale presa di posizione che spinse la stragrande maggioranza
degli internati, nonostante le continue sofferenze e vessazioni
- molti internati morirono ad esempio nel corso dei numerosi bombardamenti
aerei subiti nelle fabbriche dove lavoravano, perché era
loro vietato di recarsi nei rifugi - a non aderire ad un esercito
che rappresentava la negazione dei più elementari diritti
umani.
Il lager divenne anzi, per molti di loro, cresciuti ed educati
in piena era fascista, il luogo di una diversa e nuova consapevolezza
politica: «l'esperienza drammatica della prigionia, sommata
a quella precedente della guerra, li spinse come minimo alla più elementare
repulsione verso ogni forma di dittatura e di privazione della
libertà» [15] .
Proprio nei lager quindi, come ha detto un importante storico,
Vittorio Emanuele Giuntella, anch'egli ex internato, tutti, compresi
i carabinieri, divennero «dei resistenti che presero su di
loro l'onore e la dignità di un paese» ed il lager
stesso divenne luogo dell'«affermazione di valori morali
che sono sempre da difendere, quando tutto è perduto» [16]
.
Il ritorno a casa ed il
difficile dopoguerra
Per gli internati, sopravvissuti a venti mesi di prigionia, la
fine della guerra non significò la fine delle sofferenze
e delle amarezze, perché non furono né accolti
come meritavano dalle istituzioni, né “capiti”.
Tradotti e deportati in Germania nel pieno delle forze, al loro
ritorno apparivano incipientemente invecchiati, poco più che
scheletrici, malati, deboli e soli. Mentre il governo riconosceva
ufficialmente il contributo dei partigiani alla guerra di Liberazione,
per questi Carabinieri, come per tutti gli internati militari, il
ritorno fu amaro. Lo ricorda in una nota il maggiore dell'Arma,
Alfredo Vestuti: « Un facchino, per trasportare il bagaglio
fino a casa mia, distante poco più di un chilometro, mi
chiede mille lire. Non posseggo una tal somma; comunque la richiesta
mi mortifica. Mi carico sulle spalle curve e dolenti il sacco da
montagna e mi incammino verso casa, solo, stanco, con il cuore
amaro per il rammarico di essermi troppo illuso, quando ero ancora
lassù. » [17]
Oppure, al loro ritorno a casa, erano circondati da una indifferenza
che feriva nel profondo: «Al distretto mi hanno dato il congedo,
scritto a mano, il rimborso, poche lire, e tutto nell'indifferenza
generale» [18] . Però, era pur vero che in quel periodo
l'Italia era una nazione in ginocchio e ancora non era stato costruito
nulla. Si rischiava una guerra tra poveri, e gli ex internati,
che dovevano lasciarsi il dolore alle spalle, lo vedevano riaffiorare
invece ogni giorno con gli atteggiamenti di una società egoista,
non solidale, indifferente e ostile a questi uomini. Solamente
più di cinquant'anni dopo, nel 1998 fu conferita la medaglia
d'oro all'Internato Ignoto dal Presidente della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro, un tempo troppo lungo per chi è ritornato
e non è stato ascoltato.
In questa Italia da ricostruire, i Carabinieri ebbero inoltre
un altro merito, che nessuno ha mai riconosciuto: la raccolta scrupolosa,
verbale dopo verbale, testimonianza dopo testimonianza in
una lunga e infinita sequenza di nomi, raffiche di mitra, di ordini
assassini, di sangue, di morte, delle stragi nazifasciste
dell'Italia occupata dal settembre 1943 al maggio 1945. Un giornalista
dell'Espresso, Franco Giustolisi, racconta nel suo libro L'armadio
della vergogna [19] come questi verbali redatti dai Carabinieri
furono messi in un armadio con le ante rivolte verso il muro e
abbandonato in un sottoscala per impedire i giusti processi e avviare
un processo di pace e di memoria che ancora il nostro Paese aspetta.
Proprio da questa inchiesta emerge la responsabilità di
Enrico Santacroce, procuratore generale militare nel 1960, che
con un timbro ed una generica indicazione di «archiviazione
provvisoria» stabilì, d'accordo con i vertici del
governo italiano e nel clima della guerra fredda Est e Ovest, di
dimenticare quei 695 fascicoli riguardanti le stragi naziste in
Italia. Enrico Santacroce aveva già affrontato anni prima
una situazione simile: nel 1948 e, poco dopo, nel 1950, in due
distinti processi aveva fatto parte delle commissioni giudicanti
l'operato del generale Delfini e del maresciallo Graziani, riguardanti
anche le loro oggettive responsabilità nella deportazione
dei Carabinieri. Delfini, in particolare, già assolto per
insufficienza di prove, aveva fatto ricorso alla sentenza ottenendo
che l'assoluzione fosse motivata «perché il fatto
non è previsto dalla legge come reato». Anche il maresciallo
Graziani, nel 1950, fu assolto dall'accusa di aver: «ordinato
il disarmo dei carabinieri che si trovavano a Roma nell'ottobre
1943 perché pur essendosi stabilita la materiale sussistenza
dei fatti, si è escluso che essi siano stati commessi nell'intento
di favorire il tedesco» [20] . Questo atteggiamento, da parte
di chi aveva importanti responsabilità, ha così contribuito
a impedire che la verità fosse ricercata e ha
fatto sì che tutti questi tragici avvenimenti, vissuti dall'Italia
nel corso del periodo settembre 1943 – aprile 1945, non divenissero
un comune patrimonio ricordato con la stessa intensità ed
emozione dalle future generazioni dell'Italia repubblicana.
Il valore di queste pietre. La
nostra memoria
«Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste
parole./ Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per
via,/ Coricandovi, alzandovi./ Ripetetele ai vostri figli/ O vi
si sfaccia la casa,/ La malattia vi impedisca,/ I vostri nati torcano
il viso da voi».
Sembra che Gunther Demnig, nel realizzare le sue installazioni
in memoria dei deportati morti nei campi di sterminio, abbia avuto
proprio in mente il seguente verso: «Stando in casa,
andando per via» presente nella poesia Shemà che precede
il capolavoro-testimonianza di Primo Levi, Se questo è un
uomo (scritto dall'autore tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947),
come per dire a tutti che è importante che nessuno dimentichi
queste tragedie, che intralciano il corso della storia. E questo è ancora
più importante adesso che la memoria dei testimoni si affievolisce.
Vicino la nostra scuola media la “Giuseppe Gioachino Belli” è presente
la caserma della Legione allievi Carabinieri ora intitolata a Orlando
De Tommaso, un capitano dell'Arma morto nel corso dei combattimenti
che la popolazione romana, sia civile che militare, sostenne all'ingresso
delle truppe tedesche nella capitale, nel corso della difesa di
Roma (10 settembre 1943). A questa caserma appartenevano i carabinieri
che sono ricordati in queste “pietre d'inciampo” e,
come ci hanno voluto insegnare prima Levi e poi Demnig, la memoria
dei loro nomi, ha un'importanza fondamentale per noi, per non dimenticare
il loro sacrificio e le nostre radici storiche.
Ecco i loro nomi: Giacomo Bocci, di 27 anni, morto a Dachau
per tifo il 3 maggio 1945; Nicola Cicchiello e Francesco
Papeo, morti entrambi a 20 anni di tubercolosi a Wolsfsberg, rispettivamente il
16 aprile 1944 e il 4 maggio 1944; Attilio Bellagamba, di
22 anni, anch'egli morto a Wolfsberg di meningite il 1° giugno
1944; Vito Marziliano, di 21 anni, morto a Freising di tubercolosi;
Nobile Fimiani, di circa 20 anni, ucciso da un soldato tedesco
per una rappresaglia nel campo n. 3662 a Monaco di Baviera;
Antonio Pietromicca, di 20 anni, morto a Graz Puntigam per
un bombardamento aereo il 1° aprile 1945; Luigi Ettore Marchetto,
di 20 anni, morto a Wolfsberg per pleurite nel luglio 1944; Valdo
De Santis, di 21 anni, morto in Austria nello Straf lager n. 55
per maltrattamenti nel marzo 1945; Michele Croccuccio, di 20 anni,
morto a Monaco di Baviera nel corso di un bombardamento, il 12
settembre 1944; Armando Zanco, morto a Brundorf Marburg per annegamento
il 19 luglio 1944; Efisio Rosas, di 35 anni, ucciso da una sentinella
tedesca nei pressi di Attigliano (in provincia di Terni), mentre
cercava di scappare, l'8 ottobre del '43, dal treno che lo stava
conducendo in Germania [21] . E i nomi ricordati in queste “pietre
d'inciampo”, per fare solo un esempio quelli di Nicola
Cicchiello, Armando Zanco, Efisio Rosas, Valdo de Santis, Michele
Croccuccio, ci dicono subito una cosa essenziale, ossia ci ricordano
come i carabinieri deportati e poi morti in campi d'internamento
tedeschi ed austriaci provenivano da tutte le parti d'Italia: dal
Veneto, dalla Sardegna, dall'Abruzzo, dalla Puglia. Tutto questo
a testimonianza del comune rifiuto che la maggior parte dei
militari oppose a continuare l'alleanza con il Terzo Reich e a
collaborare con questo e la Repubblica di Salò. I loro nomi,
incisi e incastrati nel marciapiede davanti alla caserma, assieme
ad un'ulteriore pietra d'inciampo in memoria di tutti i carabinieri “senza
nome” morti nel corso del lungo internamento, sono come un
importante e simbolico, anche se tardivo: «ben tornati a
casa». Da parte nostra, l'aver collaborato a questo progetto
ha significato non solo un modo per rendere omaggio a tutti i soldati
italiani internati, e con loro a tutti gli altri deportati, ma
anche la maniera migliore per dire che la loro storia non è stata
dimenticata e che noi siamo diventati, adesso, “portatori
sani” della loro memoria.
[1] Elena
Aga Rossi, Una nazione allo sbando: l'armistizio italiano del settembre
1943 e le sue conseguenze , 2 ed., Il Mulino, Bologna 2003.
[2]
Sabrina Sgueglia della Marra, Montezemolo e il Fronte Militare Clandestino,
Stato maggiore dell'Esercito. Ufficio Storico, Roma 2008, in particolare
pp. 153-158.
[3] I dati
sono ricordati in Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943 1943. La
deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, Edizioni
Studium, Roma 2008, p. 28
[4] Anna Maria
Casavola, Una deportazione dimenticata, in Identità,
Diversità, Memoria, a cura di Liliana Di Ruscio, Rita Gravina,
Bice Migliau, Sandra Terracina, Roma 2009, pp. 109-111.
[5] Anna
Maria Casavola, 7 ottobre 1943 1943…,
cit., p. 9 che ricorda la documentazione resa pubblica degli archivi
americani dalla quale emerge la precisa richiesta formulata in
tal senso dal col. Kappler.
[6] Gerhard Scheriber, I militari italiani
internati nei campi di concentramento del III Reich, 1943- 1945,
Stato maggiore dell'Esercito – Ufficio
storico, Roma 1997.
[7] Alcune testimonianze in Mario Avagliano – Marco
Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai
lager nazisti 1943 -1945, Einaudi, Torino 2009, p. 120
[8] Ricordato
in Mario Avagliano – Marco
Palmieri, Gli internati militari italiani. cit., p. 122.
[9] Anna
Maria Casavola, 7 ottobre 1943.., cit., pp. 46-52
[10] Anna Maria Casavola, Una deportazione dimenticata,
cit., 112. Abramo Rossi è stato anche ospite della nostra scuola
dove ha incontrato la nostra classe per una lunga e appassionata
testimonianza per la quale lo vogliamo di nuovo ringraziare.
[11]
Giovanni Guareschi, Il grande Diario Rizzoli, Milano 2008, pp.
294-295.,
[12] In alcuni studi il numero di coloro che non aderirono
alla Repubblica di Salò è pari al 98,7%, vedi L'esercito
italiano dall'armistizio alla Guerra di Liberazione 8 sett. 1943 – 25
aprile 1945, a cura di Filippo Cappellano – Salvatore Orlando,
Stato maggiore dell'Esercito. Ufficio Storico, Roma 2005, p. 177.
pari al 98,7 % degli internati.
[13] Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari
italiani. cit., p.91.
[14] Questa una testimonianza ricordata
in Mario Avagliano – Marco
Palmieri, Gli internati militari italiani. cit. p. 96: «Quando
(i soldati) da quattro mesi soffrono la fame i cui stimoli diventano
sempre più tormentosi; quando essi hanno dovuto, prima recuperare
le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce, e poi divorare
le bucce stesse; quando sono stati messi nella condizione di frugare
nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli
di rancio per raccogliere con le mani o con il cucchiaio, gli avanzi
melmosi della ‘sbobba' […] quando essi si sentono
da tutti abbandonati e sul loro animo e sui loro cuori premono
particolari situazioni di famiglia, un giudizio veramente sereno
sulla grave decisione da loro presa non può essere formulato.
Solo chi ha sofferto, soffre e sopporta queste cose può comprendere.
Ed io penso che, per questi uomini, indeboliti nel fisico, nel
morale e nella volontà, accettare il ricatto loro sottoposto
sia stato solamente considerato come mezzo di liberazione».
[15]
Giorgio Rochat, Introduzione in Mario Avagliano – Marco
Palmieri, Gli internati militari italiani. cit., p. LVII
[16]
Vittorio Emanuele Giuntella, Considerazioni finali, in Fra sterminio
e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella
Germania nazista (1939-1945), a cura di Nicola Labanca, Le Lettere,
Firenze 1992, p. 350.
[17] Anna Maria Casavola,
7 ottobre 1943…,
cit., p.109
[18] Ibid., p. 111.
[19] Franco Giustolisi, L'Armadio
della vergogna, Nutrimenti, Roma, 2004.
[20] Entrambe le notizie in Anna Maria Casavola, 7 ottobre
1943…, cit., p 18
[21] I loro nomi sono noti da un elenco
scritto il 5 settembre 1946 dall'ufficio della Legione Allievi
Carabinieri e riportato nell'inserto fotografico in Anna Maria
Casavola, 7 ottobre 1943 …,
cit., n. 21
classe
III L
gli studenti:
L. Jeric Bernard Aquino
Fabio Castelli Avolio
Andrea Cicero
Federico Martini
Francesca Minà
Elisabetta Vitullo la prof.ssa
Hélène Angiolini
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