Si attesta sulla collina adiacente
la Sinagoga, dove, due anni prima, sventolava la bandiera bianca
di Fabio Mauri. Erige, intorno alla possente quercia, un paesaggio
di rovine: ventuno colonne grezze di mattoni e cemento con
qualche inserzione sporadica di frammenti lignei. E spiega: «Possono
o non possono aver fatto parte di una costruzione e, vedendole,
non è chiaro se siano state fatte da un muratore esperto
e poi abbiano subito qualche evento brutale o siano state semplicemente
vittime del trascorrere del tempo. O, forse, queste 21 colonne,
fragili nella loro rozzezza, sono sempre state un relitto:
uscite dalle mani dei loro costruttori alle soglie della vita
hanno vissuto l'agonia della violenza e della speranza, nel
tentativo di ricostruire un luogo e di reinventare la loro
stessa memoria (opposta alla storia)». Se infatti quest'ultima è «una
carovana nel deserto», con una rotta precisa e un sistema
astronomico di riferimento, la memoria sono i suoi detriti,
abbandonati lungo il tragitto, con cui l'artista costruisce
un'altra storia, ondivaga e spaesata, precaria e temporanea.
Tant'è che: «L'osservatore pensa di riconoscere
quello che vede ma è incapace di determinare con precisione
i contorni di ciò che riconosce. Restando con la sensazione
di "mi sembra di conoscerlo"». E, a proposito del lavoro
a Ostia: «Sono un raccoglitore di memorie... di misteri,
di segni. È come essere in un uragano che risucchia
tutto: case, tetti, macchine, cani e gatti. E quando il vento
si placa, deposita tutta quella roba e va da un'altra parte,
lasciando una sorta di sito archeologico... che noi ricostruiamo
e formiamo nuovamente... Il mio lavoro non ha nulla a che vedere
con l'autenticità, con l'essere se stessi, con l'unicità. È su
ciò che rimane... Un desiderio profondo di sopravvivere,
forse». |
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