Pedro CABRITA REIS
Untitled, 2005
mattoni, cemento, legno
21 colonne ciascuna di cm 220x40x40
Si attesta   sulla collina adiacente la Sinagoga, dove, due anni prima, sventolava la bandiera bianca di Fabio Mauri. Erige, intorno alla possente quercia, un paesaggio di rovine: ventuno colonne grezze di mattoni e cemento con qualche inserzione sporadica di frammenti lignei. E spiega: «Possono o non possono aver fatto parte di una costruzione e, vedendole, non è chiaro se siano state fatte da un muratore esperto e poi abbiano subito qualche evento brutale o siano state semplicemente vittime del trascorrere del tempo. O, forse, queste 21 colonne, fragili nella loro rozzezza, sono sempre state un relitto: uscite dalle mani dei loro costruttori alle soglie della vita hanno vissuto l'agonia della violenza e della speranza, nel tentativo di ricostruire un luogo e di reinventare la loro stessa memoria (opposta alla storia)». Se infatti quest'ultima è «una carovana nel deserto», con una rotta precisa e un sistema astronomico di riferimento, la memoria sono i suoi detriti, abbandonati lungo il tragitto, con cui l'artista costruisce un'altra storia, ondivaga e spaesata, precaria e temporanea. Tant'è che: «L'osservatore pensa di riconoscere quello che vede ma è incapace di determinare con precisione i contorni di ciò che riconosce. Restando con la sensazione di "mi sembra di conoscerlo"». E, a proposito del lavoro a Ostia: «Sono un raccoglitore di memorie... di misteri, di segni. È come essere in un uragano che risucchia tutto: case, tetti, macchine, cani e gatti. E quando il vento si placa, deposita tutta quella roba e va da un'altra parte, lasciando una sorta di sito archeologico... che noi ricostruiamo e formiamo nuovamente... Il mio lavoro non ha nulla a che vedere con l'autenticità, con l'essere se stessi, con l'unicità. È su ciò che rimane... Un desiderio profondo di sopravvivere, forse».