LA
RESA
Mi sono sempre chiesto che opere farei di fronte all’Apocalissi.
Una moltitudine di effetti straordinari non dovrebbe mancare. E neppure
la disperazione che l’inverosimile risulti vero. Correrei nudo
come negli affreschi gotici o mi siederei singhiozzando per non aver
capito nel corso della vita il punto centrale della questione. Ogni tanto
si fa esperienza, per pochi attimi, quasi a caso, dell’assoluto.
Subito sempre mi chiedo da dove deriva la passione per il relativo, che
forma il dettaglio dell’esistenza, e lega stretti alla vita, nessuno
escluso.
È una riflessione tra le sproporzioni del mondo, mondo breve, in cui l’uomo
vive.
Nasce la decisione ferma di seguire poche cose, fuori epoca, che riguardano
i presenti e chi c’è già stato. Pochi temi interrogativi:
il motivo dell’esistenza, la sua fine, il male, l’ingiustizia,
il dolore. Alcuni perché. Non sono infiniti.
Mi chiedo se su questi temi saremo giudicati nel terribile supercircuito
dell’Apocalissi, con una tendenza alla sostanza assoluta dei valori,
o giustificati anche per fedeltà più minuscole e temporali,
famiglia, città natale, riunioni di condominio. Non intendo fare
della retorica leggera. L’insieme di una vita morale e spirituale,
compresa l’arte, è inclusa in una fitta rete di dettagli.
Mi chiedo se le sproporzioni evidenti che balzano agli occhi sono fornite
da una libertà di fondo o da una schiavitù, un destino
prevalente, che ci determina, a nostra gioia o perdizione.
In simili crocevia della mente devo contrastare subito una inclinazione
giansenista: non riesco a credere alla libertà integrale dell’individuo.
Faccio conto, con un atto di fede, che tale libertà esista sul
serio e l’uomo sia interamente responsabile della trama morale
della sua vita.
Lo scenario non cambia. Le grandi passioni, di fronte all’ineluttabilità eterna
del nulla o di Dio, denunciano l’inconsistenza drammatica dell’esistenza,
puerilità per chi vi affonda.
Il dolore è divenuto un globo, come la terra.
La tenerezza si è frantumata.
Avrei voluto essere un monaco della Tebaide. Non lo sono stato. Avrei
voluto morire in mille modi ragionevoli. Sono ancora vivo, e mi intenerisce
ancora, persino, l’ombelico nudo delle ragazze che si fanno saltare
in aria. Ho pena affettuosa per il vecchio con trecce e cappello che
prega e dondola nello smarrimento dell’assenza temporanea di Dio.
L’esperienza, si vede, partecipata con cura, produce un definitivo
scacco delle attese.
Il senso del mondo si tramuta in un sentimento di strazio. Quasi un nastro
inciso.
È una risposta? Certo, ma non del tutto ragionevole.
Provo compassione non solo depressiva per chi muore, viene ucciso, o
va a morire per cause dettate da altri.
Le costruzioni del mondo si agganciano ferree e, con ingegneria missionaria,
erigono un edificio immotivato. È tragico sostituirsi a Dio. Va
temuta la Sua Terribilità. Le prove del dolore, la temporalità,
le mutazioni, la morte come necessità metafisica, extratemporale.
La guerra difende, o vuole onorare nobili cause, ma non costruisce che
terrificanti conclusioni, per i presenti e i futuri. Fa capo ad una morte
spicciola, non meno assoluta.
L’opera che ho messo in piedi intendeva dirne qualcosa.
E’ la resa del giudizio. Del mio almeno.
Mi allaga l’incapacità di capire.
Persino chi amo e per familiarità approvo.
E la Storia, cui ho sempre dedicato attenzione come tracciato indicativo
di un significato comune a l’uomo, ombre comprese, in fine stritola
la coscienza in un cappio di stupore e ribrezzo.
E’ stupida. E’ stata stupida.
Forse non ha motivo di essere.
Questa mia è una resa formale.
Una bandiera bianca.
Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite
di pace. 19-09-2002 |