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2010-2016: 500 pietre d'inciampo nella mappa della memoria europea.
Senato della Repubblica
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2010-2016: 500 pietre d'inciampo nella mappa della memoria europea. Senato della Repubblica

Intervento di Anna Foa

Nel lungo percorso di costruzione della memoria della Shoah gli stolperstein, pietre d’inciampo, creazione dell’artista tedesco Gunter Demnig, arrivano per ultime, negli anni Novanta. Siamo ormai in un momento in cui tutto sembra essere stato detto e ricordato e in cui si ha la sensazione di avviarsi  nella direzione opposta, verso la perdita della memoria. Dopo la morte di Primo Levi, mentre i testimoni cominciano già a diminuire, e anche dopo la caduta dell’Est comunista, mentre genocidi e violenze che ricordano da vicino quello che era accaduto cinquant’anni prima, dal Rwanda a Srebrenica, pongono domande urgenti e ancor oggi irrisolte.

E’ infatti solo a partire dal 1995, e in Italia dal 2010, che le pietre d’inciampo hanno cominciato a segnare case e strade delle città, in Italia come in molte altre parti d’Europa. Vere e proprie opere d’arte quali sono, piccole sculture sobrie e discrete, destinate ad essere calpestate perché destinate appunto all’inciampo: inciampo dell’attenzione ma anche inciampo materiale, non destinato a far cadere il passante ma a fargli percepire che là qualcosa è successo che lo chiama. Le pietre d’inciampo segnano lo spazio, mentre i nomi che vi sono incisi segnano il tempo. Il tempo della nascita e della morte di un essere umano, lungo, lunghissimo, brevissimo. Le date ci dicono se da quella porta è passato un neonato ancora incapace di camminare o un vecchio che si appoggiava al bastone, un uomo giovane e forte, una donna incinta. Le due categorie fondamentali dell’essere umano, il tempo e lo spazio, sono compresse dentro quel sampietrino di ottone, quella scultura. Tempo che si lega allo spazio, in un legame indissolubile che solo consente l’identificazione e la memoria: da quella porta sono usciti, quel giorno erano nati, quel giorno morirono. La memoria torna ai sepolcri disseminati nei pavimenti delle antiche chiese.

Attraverso quelle piccole sculture, pietre che richiamano ad un essere umano, ad una identità, lo spazio si riempie di memorie. Sono memorie anch’esse individuali, anche se messe tutte insieme formerebbero un grande tappeto, ma la loro caratteristica è proprio quella di essere il ricordo ciascuna di una persona, di renderci concreta quella persona a differenza delle grandi lapidi con tanti nomi, anch’esse importanti, ma che hanno una diversa funzione. La funzione delle pietre d’inciampo è quella di dare un nome ad ogni uomo, donna, bambino che ha superato quelle soglie, quei portoni, senza alcuna gerarchia; strappato alla vita da quel luogo e assassinato. Un’etichetta in ottone come quelle messe di fronte alle porte delle case a dirci chi ci abita. Ma su cui il nostro piede inciampa lievemente e la nostra memoria si costruisce e rinnova. Per questo è importante che il piede del passante vi posi, questione tuttavia su cui si è molto dibattuto. Forse quando saremo del tutto consapevoli della loro esistenza impareremo a far scivolare il piede senza toccarle. Ma finché abbiamo bisogno di inciampare dobbiamo calpestarle per farle nostre. Per raggiungere il nome che è sulla pietra. Qualcosa di molto simile succede a Mosca nualcosa di molto simile succede a Mosca, nella cerimonia della restituzione dei nomi, organizzata dall’associazione Memorial, dove una volta l’anno vengono letti per 24 ore i nomi delle vittime del Terrore comunista, in piazza Lubianka, davanti ad una stele di pietra  portata dai lager delle isole Solovki.

Dicevo che la nostra memoria si rinnova ancorandosi ai luoghi e alle date che segnalano l’età di chi è ricordato. Lo spazio è terreno privilegiato di memoria, come il tempo, in stretta connessione con esso. La mente umana ricorda attraverso lo spazio. Ben lo sapevano gli uomini del Rinascimento quando inventarono i teatri della memoria, dove ogni pensiero, ogni conoscenza, era collocato su scaffali ideali per poter essere memorizzato e trasmesso. Pilastri a cui il ricordo si ancorava, evitando di perdersi. Ben lo sappiamo quando di un libro una frase ci torna in mente solo ricordando la sua collocazione sulla pagina. Lo spazio è necessario. Ma lo spazio non si limita a sollecitare la memoria, evita anche che essa divenga vuota, fumosa, retorica senza radici. Il luogo e il tempo sono, perché categorie fondamentali del nostro essere, gli unici modi che abbiamo per ridar vita al passato: il posto dove un evento si è realizzato, il tempo in cui è accaduto.  Prima e dopo quell’altro evento? Contestualizzando nel tempo e nello spazio restituiamo realtà alla memoria, evitiamo che resti fossilizzata, incapace di suscitare emozioni, mera retorica o fumo.

Molto si è infatti parlato dei rischi della memoria. Una memoria, quella della Shoah, che si è costruita lungo il tempo, trasformandosi e cambiando natura, fino a definirsi, intorno agli anni Ottanta. E da allora, soprattutto dopo la sua istituzionalizzazione con le celebrazioni della giornata della memoria, a rischio di diventare un monumento vuoto, senza visitatori. Intendiamoci, non sono fra quelli che, anche nel mondo ebraico, ritengono che questi rischi siano eccessivi, deformanti. Credo che il valore della memoria sia tale da poterne affrontare anche i pericoli.  E soprattutto, penso che la memoria, che non è mai spontanea ma sempre frutto di una costruzione, risponda ad esigenze profonde e sentite. Le memorie, i libri si pubblicano perché ce ne sono i lettori, e stimolano sempre nuovi lettori.

Ma per quanto questa memoria sia frutto di un laborioso processo di costruzione, strettamente intrecciato con quello di ricostruzione e definizione compiuto dalla storia, essa è anche l’indice di una percezione a volte anche molto confusa che là qualcosa è cambiato, che il nodo di ciò che è accaduto è ancora da sciogliere. Che la cosa che è là, i campi, la morte nella Shoah, non hanno smesso di interrogarci. Per ricordarci, come scriveva Primo Levi, che “nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.

Vogliamo ricordare brevemente il faticoso processo memoriale italiano? Contrariamente a quanto spesso si dice, esso comincia subito, quando ancora, nell’Italia del Nord occupata, gli ebrei salgono sui treni piombati, i partigiani vengono impiccati e fucilati, le popolazioni civili massacrate, le donne partigiane, e con esse anche le donne ebree, approdano a Ravensbruck, il grande campo femminile. La ferocia dei nazisti e dei fascisti di Salò fa ancora morti e deportati, mentre già nell’Italia liberata si scrive, si cercano i destini dei deportati, si comincia a fare la storia di quella vicenda. E’ necessario ricordare che 16 ottobre 1943, di Giacomo Debenedetti, dove si racconta in termini che hanno sostanzialmente retto al volgere degli anni e alle ricerche degli storici, è stato scritto nel 1944? Che Primo Levi era appena tornato da Auschwitz quando scrisse con il medico Leonardo De Benedetti, suo compagno di lager a Monowitz, quello straordinario rapporto sulle condizioni sanitarie del Campo di Monowitz (Auschwitz 3), originariamente su richiesta del governo dell’URSS, che fu pubblicato a Torino nel novembre 1946 sul periodico Minerva Medica?  Si tratta di un vero e proprio avantesto di Se questo è un uomo, a sua volta portato a termine, nella prima versione rifiutata da Einaudi e pubblicata da De Silva, nel 1947. Nei primi tre anni dopo la Liberazione, in Italia escono numerose memorie ebraiche sui campi, di cui ben sei opera di donne ebree. Un numero di gran lungo superiore a quello di altri paesi occupati, perfino della Francia. Certo, sono mescolate a memorie scritte da non ebrei, in gran parte politici. Non c’è ancora l’assoluta dominanza dello sterminio degli ebrei sugli altri deportati che si affermerà successivamente, anche se la consapevolezza che si fosse trattato di qualcosa di diverso dalle altre violenze della guerra è presente, confusa e non ancora precisata. Manca ancora la conoscenza precisa dell’universo concentrazionario, bisognerà aspettare che la memoria si sostanzi di storia, che osservatori e storici si mettano al lavoro per distinguere e precisare, per contare, per definire. Mancano ancora i processi, come quello di Norimberga, con tutti i processi che ne derivano, compresi quelli ai medici, che portando alla luce fatti e testimonianze, avranno una grande influenza su questo processo conoscitivo. Uno dei primi studi storici su questo tema, quello di Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, del 1952, esce in Italia in traduzione per Einaudi nel 1955, solo dieci anni dopo la Liberazione. Lo traduce Annamaria Levi, sorella di Primo.

La costruzione della memoria si avvia così, fin da subito, sia pure con lentezze e incertezze, in stretta connessione al processo di ricostruzione storica. Se ne sostanzia, se ne nutre. Non vi si contrappone. Ed è inoltre, ancora, una memoria comune a ebrei e non ebrei. Pensiamo a quello straordinario monumento che è il mausoleo delle fosse Ardeatine, dove le tombe dei 75 ebrei sono messe insieme a quelle di tutti gli altri, senza altra distinzione che la croce o la stella di David, insieme, accomunate dal destino comune. E’ vero, tuttavia, che si tratta di un destino comune solo nell’esito. Perché gli ebrei sono approdati a Regina Coeli e di là alle Fosse Ardeatine, in quanto ebrei, solo per quello che erano, ebrei. Eppure, non c’è misconoscimento, o almeno non troppo, in questa fase in cui la memoria dello sterminio ebraico non ha ancora assunto l’identità specifica della Shoah. Andava nella stessa direzione il titolo di Italia Libera, scritto ricordiamolo da un ebreo, Leone Ginzburg, secondo cui i nazisti avevano arrestato il 16 ottobre mille italiani. E’ stato letto anche come un disconoscimento, ma voleva dire che quegli ebrei erano cittadini italiani. Cittadini italiani più a rischio degli altri italiani, perché obiettivo primario dell’odio nazista.

Anche nella costruzione del processo memoriale italiano, gli anni Settanta sono quelli in cui si costruisce lo specifico oggetto Shoah. Non ha ancora quel nome, o almeno ben pochi lo intendono, ed anche fino alla fine degli anni Settanta il nome con cui continuerà ad essere designato lo sterminio, nell’area linguistica anglossassone, Olocausto, non è molto diffuso. L’idea che si tratti di una Cosa a sé, distinta radicalmente dalle altre atrocità di una guerra rivolta contro i civili, non nasce tuttavia in Italia. E’ in Israele il processo Eichmann a sottolineare l’identità specifica dello sterminio degli ebrei, coi suoi cento sopravvissuti venuti a testimoniare. E’ inutile sottolineare qui il valore politico, di riunificazione identitaria, del processo Eichmann, anche se ci piace ricordare come voce fuori dal coro, quella di Hannah Arendt. Sono gli Stati Uniti a raccoglierne il legato. Nel 1967, l’anno della guerra dei Sei Giorni, a mostrarci il nesso con gli sviluppi della memoria in Israele, Elie Wiesel sostiene, contro le tesi universalistiche di Georges Steiner, che la Shoah è stato un fenomeno unico, assolutamente specifico, l’esito della guerra di Hitler contro gli ebrei, per riprendere il titolo del libro che scriverà nel 1975 una storica, Lucy Dawidowicz.

Gli storici accompagnano il dibattito di romanzieri e filosofi. La memoria si costruisce in stretto nesso con l’identità. Sono gli anni in cui, sull’onda del femminismo e delle storie delle minoranze, il recupero identitario si afferma con forza. L’affermazione decisa dell’unicità della Shoah, la sua trasformazione, nei decenni successivi, in una sorta di dogma, trae linfa da questa connessione tra identità e Shoah, non dalla storiografia. Fanno eccezione opere come quelle di Saul Friedlander e poche altre, in cui il richiamo all’unicità si sostanzia di storia. Perché è pur vero che questa memoria identitaria ha elementi forti di realtà su cui costruirsi. Come tutti i genocidi della storia, tutti diversi nelle loro modalità, lo sterminio nazista degli ebrei è assai specifico: è il frutto finale della concezione del predominio ariano e del razzismo nazista, si concretizza nei campi destinati al solo sterminio, fenomeno questo davvero unico, sposta masse di donne vecchi e bambini per avviarli alle camere a gas. Inoltre, in quel momento l’idea che si sia trattato di un fenomeno qualitativamente diverso dai massacri, dalle deportazioni, dalle violenze contro i non ebrei ha un effetto di forte accelerazione della costruzione memoriale. All’intuizione che ci si trovava di fronte ad una Cosa che aveva mutato il corso della storia e costretto tutti a fare i conti con se stessi e con gli altri, si sostituiva un oggetto definito, che gli storici potevano ricostruire e i sopravvissuti ricordare e narrare: la Shoah, l’Olocausto. Il mai più nasce in questo contesto.

In Italia, negli stessi anni in cui questa metamorfosi memoriale viene accolta e recepita, avviene anche un’altra importante riflessione, che contribuisce a definire l’oggetto Shoah italiana. E’ la riflessione sulle leggi del 1938, stranamente rimosse nei primi decenni, che assumono rilievo storiografico e memoriale solo a partire dal cinquantesimo anniversario.  Il dibattito che ne nasce si salda strettamente con quello sul “mito del bravo italiano”, un mito che cerca di salvaguardare il ruolo degli italiani trasformandoli in potenziali antifascisti, vittime innocenti della dittatura. Si distingue solo allora fra il consenso al fascismo, che contrariamente alla vulgata non venne messo davvero in discussione dal razzismo del 1938, e il comportamento italiano di fronte alle deportazioni e alla morte annunciata degli ebrei. Gli stessi che non avevano aperto bocca davanti a provvedimenti che distruggevano il carattere stesso della costruzione nazionale italiana, l’uguaglianza dei suoi cittadini, gli stessi che avevano troncato amicizie, preso i posti lasciati liberi dai colleghi ebrei, cacciato senza batter ciglio dalle scuole bambini di sei anni, rifiutavano ora di consegnare ebrei ai nazisti e, dopo l’8 settembre, ne proteggevano le vite. Non tutti e non sempre. Si ricostruisce infine, con gli studi del CDEC, il ruolo dei militi della RSI, zelanti persecutori di ebrei al posto dei nazisti, che erano troppo occupati a combattere l’avanzata angloamericana per portare a termine questo compito da soli. Emerge il fatto acclarato che più della metà degli ebrei italiani deportati sono stati arrestati dai fascisti italiani, non dalle SS. Che il censimento degli ebrei italiani, fatto nel 1938, è stato usato per individuare e arrestare gli ebrei senza che nessuno o quasi, nei quaranta giorni di Badoglio, si curasse di ordinarne la distruzione.

Perché questo ritardo nel ricostruire la vicenda delle leggi del 1938, nell’attribuire anche agli italiani il compito di persecutori? Non siamo stati certo gli unici ad affrontare tardi le nostre colpe, pensiamo al caso della Francia di Vichy. Inoltre, è evidente che mettere in luce il ruolo di Salò e quello delle leggi del 1938 voleva dire minare l’idea stessa che gli italiani fossero stati in maggioranza vittime e non collaboratori della dittatura fascista. Il paradigma antifascista, su cui si elaborano i principi della Repubblica, non poteva sottolineare questi aspetti della storia italiana. Il consenso al fascismo, se riconosciuto, avrebbe minato la credibilità italiana nel consesso delle nazioni vincitrici.

Quando, molti decenni dopo, l’enfasi storiografica e memoriale torna su questi momenti; quando i sopravvissuti allora bambini ricordano in pubblico, parlando nelle scuole e nelle piazze, la loro cacciata dai banchi, allora è possibile ricostruire in maniera diversa il passato. L’enfasi sul 1938 porta ancora una volta in primo piano la centralità della persecuzione antiebraica. Ma l’analisi di Salò fa anche riemergere alla luce del giorno altri eventi dimenticati: non più  solo le leggi del 1938 contro gli ebrei e la attiva persecuzione e consegna ai nazisti, ma anche  l’esistenza di sei-settecentomila soldati e ufficiali  italiani internati militari nei campi nazisti  per aver rifiutato di prestare giuramento a Salò. Quante famiglie sono coinvolte direttamente in questa vicenda, per avere un figlio o un marito internato? E i carabinieri disarmati a Roma il 7 ottobre 1943 su ordine del maresciallo Graziani (ne resta il documento a firma Graziani)  e inviati nei campi, chi se ne ricordava più? Emergono pezzi di storia rimossa che non riguardano solo gli ebrei. Certo, gli IMI non vengono selezionati e spediti al gas, è un’altra storia. Ma anch’essa rimossa. Mentre l’unicità della Shoah, intorno agli anni Novanta, ha ormai assunto le caratteristiche di un dogma, nutrito dell’idea dell’esaltazione della vittima, l’universo concentrazionario diventa un puzzle di diversità da ricostruire e ricreare. Chi è stato più vittima, ci si domanda. Ma la concorrenza delle vittime è una domanda priva di senso, sia storico che di memoria. Perché, dal punto di vista dello storico, nessuno ha mai negato le diversità della sorte tra gli ebrei e le altre componenti dell’universo concentrazionario (con l’eccezione dei rom e dei sinti, tuttavia) e da quello memoriale  chi può sostenere che la morte non abbia la stessa dignità quando si parla delle vittime di situazioni estreme?

Così si è dipanata una memoria complessa e potenzialmente conflittuale. Dico potenzialmente, perché le contraddizioni di questa memoria, le sue difficoltà, la necessità di allargarne i confini, di non rinchiuderla a conferma identitaria, sono state a lungo riassorbite dal consenso collettivo creatosi su questo trauma, divenuto fondante della nostra cultura di europei. Non mi riferisco naturalmente, parlando di contraddizioni, a fenomeni di vero e proprio antisemitismo, come il negazionismo, ma del confronto con gli altri genocidi che hanno costellato il Novecento, prima e dopo la Shoah. Il genocidio armeno è stato riconosciuto con difficoltà come un fenomeno della stessa natura della Shoah, anche se nei ghetti in Polonia sotto l’occupazione nazista gli ebrei riconoscevano nel genocidio degli armeni la sorte che sarebbe toccata a loro e leggevano avidamente il romanzo di Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, per ritrovarvi la loro storia. Più difficile è stato riconoscere nella Cambogia di Pol Pot e nel Rwanda molte delle caratteristiche del genocidio degli ebrei, e molte sono state le accuse di appiattire l’unicità della Shoah. E ancora più silenzioso il confronto con il genocidio in atto, quello della Siria. E intanto, non si può fare a meno di domandarsi a cosa serva, a cosa sia servita la memoria, se i genocidi continuano e noi continuiamo a tacere. Se, per dirla ancora con Levi, continuiamo a non ricordarci “che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.

Ma infine, a che serve la memoria? Vogliamo davvero usarla per rafforzare la nostra identità? Non credo che sia questo il suo scopo. Le identità coltivate con ostinazione sono pericolose, portano altrove, lontano dalla solidarietà verso l’altro e dalla volontà di impedire altre violenze. Può anche essere vero che dopo la distruzione di tanta parte del mondo ebraico europeo il bisogno di rinsaldare l’identità fosse primario, ma ormai il problema sembra superato. O serve ad impedire che eventi come questo succedano di nuovo, tralasciando il fatto evidente che, sia pur in dimensioni più ridotte, continuano a succedere? Lo stampo del genocidio non si è rotto con la nostra elaborazione memoriale. Dove abbiamo sbagliato? Come abbiamo sbagliato? E abbiamo davvero sbagliato, o non abbiamo fatto abbastanza?

Certamente, abbiamo sbagliato quando abbiamo pensato o lasciato pensare che la memoria riguardasse gli ebrei e solo gli ebrei. Essa riguarda tutti, riguarda anzi più i non ebrei che gli ebrei. Prima che delle vittime, è memoria della storia di quanti hanno lasciato che accadesse come di quanti vi si sono opposti. Certo, è anche la piaga aperta delle vittime. Ma è soprattutto memoria di tutti gli altri, quelli che il loro nome, la loro appartenenza, non destinava per ciò stesso ai campi di sterminio. Questo è un punto fondamentale senza il quale la memoria stessa diventa un ghetto.

Siamo in un momento di grande confusione. Molta parte di quello che la generazione nata dopo la guerra ha costruito sta andando in frantumi. Lo spessore storico si annulla in una sorta di esaltazione del presente. Sei ora, non sei quello che il passato ti ha fatto. Se cancelli la storia, quale sarà la sorte della memoria? Può anche sopravvivere, ma diventerà vuota celebrazione, retorica. Si perdono, non possono non perdersi per ovvi motivi generazionali, i ricordi vivi dei testimoni. Le facce del passato si confondono, le persone scompaiono. Restano solo fantasmi privi di carne e sangue.

Eppure, dobbiamo farle ritornare reali, reinfondere loro la vita. Cessare di considerarli numeri e vederli come persone. Le pietre d’inciampo sono un mezzo, un mezzo efficace oltre che poetico, per restituire quella carne e quel sangue. Vogliono riportare in vita i morti, gli scomparsi, sottrarli alla cancellazione. Sono concrete. Sono testimonianze senza testimoni. Sono durature come l’ottone di cui sono ricoperte. Sono più facili da leggere dei grandi monumenti. Ci avvicinano a delle persone vere, vive. E sono rivolte a tutti, ricordano sulla soglia della loro casa tutti quelli che i nazisti e i loro servi fascisti hanno portato via dietro le canne dei fucili. Non solo gli ebrei, ma “tutti i deportati, per dirla con Adachiara Zevi e il suo bel libro Monumenti per difetto: razziali, politici, militari, rom, omossessuali, testimoni di Geova”. Ricordano tutti, fanno inciampare tutti e ricordano a ognuno, al turista come al distratto abitante della casa, che lì è passato un essere umano destinato alla morte per assassinio. Il suolo dove sono inserite diventa un teatro della memoria. Per questo le pietre d’inciampo possono ora che ci avviciniamo alla fine della testimonianza diretta tramandare la memoria reimmettendo nella nostra quotidianità di oggi gli orrori di un passato sempre più lontano nel tempo.  L’arte, attraverso queste opere d’arte, dimostra non solo che non è morta ad Auschwitz (e non basterebbe per ricordarcene guardare alla Crocefissione Bianca di Chagall?) ma che può essere per se stessa creatrice di memoria.

Grazie per questa creazione all’architetto Denmig e a quanti a cominciare da Adachiara Zevi, danno la loro mente e la loro opera a questo straordinario monumento diffuso nel suolo delle città.