7 ottobre 1943: la deportazione dei Carabinieri romani nei lager nazisti
   
ATTILIO BELLAGAMBA
GIACOMO BOCCI
AUGUSTO CAPON
NICOLA CICCHIELLO
MICHELE CROCCUCCIO
VALDO DE SANTIS
ANTONIO DIPIETROMICCA
NOBILE FIMIANI
MAURIZIO GIGLIO
LUIGI ETTORE MARCHETTO
VITO MARZILIANO
COL. EUGENIO PALADINI
FRANCESCO PAPEO
EFISIO ROSAS
TEOFRASTO TURCHETTI
ARMANDO ZANCO

È stata la prima grande deportazione da Roma, superiore per numero (duemila o duemila e cinquecento uomini) a quella, successiva di una settimana, di oltre mille ebrei ed è possibile stabilire tra i due fatti un collegamento. Ciò che emerge dai documenti d’archivio, finalmente non più secretati, è che ci troviamo di fronte ad una pagina oscura della storia del nostro Paese rappresentata non solo dall’occupazione tedesca, ma anche dalla risurrezione dello Stato fascista, dopo la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso, il 12 settembre 1943, per cui non è facile stabilire una linea netta di demarcazione tra l’asservimento agli occupanti, il collaborazionismo volontario, l’azione in stato di necessità. Ecco i fatti: al col. Herbert Kappler delle SS, che era un pò il dominus della situazione a Roma, arriva da Berlino il 24 settembre l’ordine: ”tutti gli ebrei senza distinzione di nazionalità e di sesso dovranno essere trasferiti in Germania e ivi liquidati. Bisogna quindi dare subito inizio ai rastrellamenti. Di fronte a quest’ ordine Kappler cerca di prendere tempo, ovviamente non per ragioni umanitarie. Egli conosceva bene la realtà italiana per averci soggiornato da prima dell’inizio della guerra e, da come risulta dalle sue conversazioni telefoniche, finalmente decriptate dopo l’apertura degli Archivi Alleati, diffidava molto dei Carabinieri come forza di polizia. Ai tedeschi era noto il ruolo che aveva avuto l’Arma nella caduta del regime e come questa fosse in gran parte animata da sentimenti monarchici e antitedeschi. Non avevano essi combattuto la sera stessa dell’8 settembre alla Magliana contro di loro? Inoltre non doveva essere sfuggito a Kappler il carattere particolare di questa polizia, radicata sul territorio e con attitudine protettiva verso la popolazione. Infatti, come forza di polizia sottoposta al Comando tedesco, aveva spesso sabotato dall’interno quegli ordini che aveva considerato lesivi per la popolazione. La richiesta esplicita di Kappler ai suoi superiori Himmler e Kaltenbrunner era stata quindi di deportare prima i Carabinieri, ma Berlino non prende in considerazione la richiesta e ribadisce la priorità degli ebrei. Kappler per temporeggiare escogita l’inganno della taglia dei cinquanta kg. d’oro. Il fatto che a questa raccolta in favore degli ebrei avessero partecipato anche romani non ebrei, non deve averlo rassicurato sui sentimenti antisemiti della città. A ciò si aggiunge la notizia della cacciata dei tedeschi da Napoli alla fine di settembre, dove la popolazione era stata apertamente spalleggiata e armata dai Carabinieri. A innescare la scintilla a Napoli era bastato un rastrellamento per lavoro coatto. Kappler doveva temere che anche a Roma si potesse ripetere la stessa situazione. A questo punto entra in scena la RSI nella persona del suo ministro alla Difesa nazionale il Maresciallo Rodolfo Graziani, che piomba a Roma il 6 ottobre al Comando Generale dell’Arma. Qui non trova il gen. Armando Mischi, in visita da Mussolini a Rocca delle Camminate, ma il suo sostituto generale di brigata Casimiro Delfini, a cui dà ordine, per il giorno dopo, di effettuare il disarmo di tutti i carabinieri in Roma, prologo, si disse, al loro trasferimento e impiego al Nord. Ma il Nord sarebbe stato la Germania o la Polonia. Graziani agì naturalmente d’intesa con il Comando tedesco ma se fu lui il suggeritore o lo strumento è un quesito irrisolvibile. C’era indubbiamente una coincidenza di interessi, perché anche i fascisti avevano un conto aperto con i carabinieri e potevano desiderare di sbarazzarsene. L’ordine fu eseguito dagli stessi ufficiali dell’Arma, vincolati al segreto e sotto la minaccia di rappresaglie sulle loro famiglie e di essere passati per le armi, se avessero disobbedito. I carabinieri furono fatti cadere in un tranello ed ebbero l’impressione di essere stati traditi. Così ricorda quel giorno il maggiore Alfredo Vestuti, deportato: «Il giorno della cattura fummo fatti cadere in un tranello tesoci dai tedeschi e dai non meno crudeli repubblichini. Eravamo un ingombro, un ostacolo per i nazifascisti, eravamo testimoni da eliminare, eravamo l’unica protezione per le popolazioni avvilite e stanche e decisero di disfarsi di noi». Le caserme furono circondate dai paracadutisti tedeschi e dai militi della PAI (Polizia dell’Africa Italiana). Per fortuna molti carabinieri, per un provvidenziale passa parola, non si presentarono nelle caserme e non furono presi. La mattina dopo, dalle stazioni di Trastevere e Ostiense, partirono duemila tra carabinieri semplici, graduati e ufficiali per ignota destinazione, in carri bestiame sigillati all’esterno. Secondo fonti tedesche, i carabinieri prigionieri sarebbero cinquecento in più. I carabinieri romani, una volta giunti nei campi di concentramento in Austria o in Germania e Polonia, si confusero e si mescolarono con la grande massa degli IMI, i militari italiani fatti prigionieri su tutti i fronti dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943: circa seicentocinquantamila uomini. Ad essi Hitler tolse lo status di prigionieri di guerra affinché non godessero di alcuna protezione internazionale; furono denominati “internati”, in quanto sudditi non affidabili di uno Stato, la RSI, che si considerava alleato della Germania. Gli internati italiani furono oggetto, da parte della popolazione civile, fatte salve alcune eccezioni, di una forma persecutoria di razzismo non diversa da quella rivolta agli ebrei, perché considerati traditori e responsabili della sconfitta della Germania. Tuttavia, unici tra tutti i prigionieri, a essi fu data la possibilità di scegliere la loro condizione: rimanere nei campi o tornare liberi, continuando a combattere nelle forze armate tedesche o in quelle della RSI, che avrebbe voluto trarre dagli internati il nuovo esercito di Mussolini. Sorprendentemente, l’adesione fu minima (meno del 10%), anche se, optando per la RSI, l’allettante promessa era la possibilità di rientrare in Italia. Eppure a fronte di fame, sevizie e maltrattamenti, furono capaci di dire NO, togliendo ogni possibile legittimazione alla RSI. Un NO pronunciato da militari di ogni ordine e grado, arma e categoria, ristretti in campi diversi, senza punti di riferimento, senza suggestioni ed informazioni gerarchiche, cittadini indigenti e benestanti, contadini e professionisti, intellettuali e analfabeti, del Nord, del Sud, del Centro, delle Isole. Questo è l’aspetto più rilevante di questa pagina sconosciuta della storia del nostro Paese.

Anna Maria Casavola