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ATTILIO BELLAGAMBA
GIACOMO BOCCI
AUGUSTO CAPON
NICOLA CICCHIELLO
MICHELE CROCCUCCIO
VALDO DE SANTIS
ANTONIO DIPIETROMICCA
NOBILE FIMIANI
MAURIZIO GIGLIO
LUIGI ETTORE MARCHETTO
VITO MARZILIANO
COL. EUGENIO PALADINI
FRANCESCO PAPEO
EFISIO ROSAS
TEOFRASTO TURCHETTI
ARMANDO ZANCO |
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È stata la
prima grande deportazione da Roma, superiore per numero (duemila
o duemila e cinquecento uomini) a quella, successiva di una settimana,
di oltre mille ebrei ed è possibile stabilire
tra i due fatti un collegamento. Ciò che emerge dai documenti
d’archivio, finalmente non più secretati, è che
ci troviamo di fronte ad una pagina oscura della storia del nostro
Paese rappresentata non solo dall’occupazione tedesca, ma anche
dalla risurrezione dello Stato fascista, dopo la liberazione di Mussolini
dalla prigione del Gran Sasso, il 12 settembre 1943, per cui non è facile
stabilire una linea netta di demarcazione tra l’asservimento
agli occupanti, il collaborazionismo volontario, l’azione in
stato di necessità. Ecco i fatti: al col. Herbert Kappler
delle SS, che era un pò il dominus della situazione a Roma,
arriva da Berlino il 24 settembre l’ordine: ”tutti gli
ebrei senza distinzione di nazionalità e di sesso dovranno
essere trasferiti in Germania e ivi liquidati. Bisogna quindi dare
subito inizio ai rastrellamenti. Di fronte a quest’ ordine
Kappler cerca di prendere tempo, ovviamente non per ragioni umanitarie.
Egli conosceva bene la realtà italiana
per averci soggiornato da prima dell’inizio della guerra
e, da come risulta dalle sue conversazioni telefoniche, finalmente
decriptate dopo l’apertura degli Archivi Alleati, diffidava
molto dei Carabinieri come forza di polizia. Ai tedeschi era noto
il ruolo che aveva avuto l’Arma nella caduta del regime e
come questa fosse in gran parte animata da sentimenti monarchici
e antitedeschi. Non avevano essi combattuto la sera stessa dell’8
settembre alla Magliana contro di loro? Inoltre non doveva essere
sfuggito a Kappler il carattere particolare di questa polizia,
radicata sul territorio e con attitudine protettiva verso la popolazione.
Infatti, come forza di polizia sottoposta al Comando tedesco, aveva
spesso sabotato dall’interno
quegli ordini che aveva considerato lesivi per la popolazione. La
richiesta esplicita di Kappler ai suoi superiori Himmler e Kaltenbrunner
era stata quindi di deportare prima i Carabinieri, ma Berlino non
prende in considerazione la richiesta e ribadisce la priorità degli
ebrei. Kappler per temporeggiare escogita l’inganno della taglia
dei cinquanta kg. d’oro. Il fatto che a questa raccolta in
favore degli ebrei avessero partecipato anche romani non ebrei, non
deve averlo rassicurato sui sentimenti antisemiti della città.
A ciò si aggiunge
la notizia della cacciata dei tedeschi da Napoli alla fine di settembre,
dove la popolazione era stata apertamente spalleggiata e armata
dai Carabinieri. A innescare la scintilla a Napoli era bastato
un rastrellamento per lavoro coatto. Kappler doveva temere che
anche a Roma si potesse ripetere la stessa situazione. A questo punto
entra in scena la RSI nella persona del suo ministro alla Difesa
nazionale il Maresciallo Rodolfo Graziani, che piomba a Roma il
6 ottobre al Comando Generale dell’Arma. Qui non trova il
gen. Armando Mischi, in visita da Mussolini a Rocca delle Camminate,
ma il suo sostituto generale di brigata Casimiro Delfini, a cui
dà ordine, per il giorno dopo,
di effettuare il disarmo di tutti i carabinieri in Roma, prologo,
si disse, al loro trasferimento e impiego al Nord. Ma il Nord sarebbe
stato la Germania o la Polonia. Graziani agì naturalmente
d’intesa
con il Comando tedesco ma se fu lui il suggeritore o lo strumento è un
quesito irrisolvibile. C’era indubbiamente una coincidenza
di interessi, perché anche i fascisti avevano un conto aperto
con i carabinieri e potevano desiderare di sbarazzarsene. L’ordine
fu eseguito dagli stessi ufficiali dell’Arma, vincolati al
segreto e sotto la minaccia di rappresaglie sulle loro famiglie
e di essere passati per le armi, se avessero disobbedito. I carabinieri
furono fatti cadere in un tranello ed ebbero l’impressione
di essere stati traditi. Così ricorda quel giorno il maggiore
Alfredo Vestuti, deportato: «Il giorno della cattura fummo
fatti cadere in un tranello tesoci dai tedeschi e dai non meno
crudeli repubblichini. Eravamo un ingombro, un ostacolo per i nazifascisti,
eravamo testimoni da eliminare, eravamo l’unica protezione
per le popolazioni avvilite e stanche e decisero di disfarsi di
noi». Le caserme furono circondate
dai paracadutisti tedeschi e dai militi della PAI (Polizia dell’Africa
Italiana). Per fortuna molti carabinieri, per un provvidenziale
passa parola, non si presentarono nelle caserme e non furono presi.
La mattina dopo, dalle stazioni di Trastevere e Ostiense, partirono
duemila tra carabinieri semplici, graduati e ufficiali per ignota
destinazione, in carri bestiame sigillati all’esterno. Secondo
fonti tedesche, i carabinieri prigionieri sarebbero cinquecento
in più. I carabinieri
romani, una volta giunti nei campi di concentramento in Austria
o in Germania e Polonia, si confusero e si mescolarono con la grande
massa degli IMI, i militari italiani fatti prigionieri su tutti
i fronti dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943: circa seicentocinquantamila
uomini. Ad essi Hitler tolse lo status di prigionieri di guerra
affinché non
godessero di alcuna protezione internazionale; furono denominati “internati”,
in quanto sudditi non affidabili di uno Stato, la RSI, che si considerava
alleato della Germania. Gli internati italiani furono oggetto,
da parte della popolazione civile, fatte salve alcune eccezioni,
di una forma persecutoria di razzismo non diversa da quella rivolta
agli ebrei, perché considerati traditori e responsabili
della sconfitta della Germania. Tuttavia, unici tra tutti i prigionieri,
a essi fu data la possibilità di scegliere la loro condizione:
rimanere nei campi o tornare liberi, continuando a combattere nelle
forze armate tedesche o in quelle della RSI, che avrebbe voluto
trarre dagli internati il nuovo esercito di Mussolini. Sorprendentemente,
l’adesione
fu minima (meno del 10%), anche se, optando per la RSI, l’allettante
promessa era la possibilità di rientrare in Italia. Eppure
a fronte di fame, sevizie e maltrattamenti, furono capaci di dire
NO, togliendo ogni possibile legittimazione alla RSI. Un NO pronunciato
da militari di ogni ordine e grado, arma e categoria, ristretti
in campi diversi, senza punti di riferimento, senza suggestioni
ed informazioni gerarchiche, cittadini indigenti e benestanti,
contadini e professionisti, intellettuali e analfabeti, del Nord,
del Sud, del Centro, delle Isole. Questo è l’aspetto
più rilevante di questa
pagina sconosciuta della storia del nostro Paese.
Anna Maria Casavola
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