testo - ricollocazione
pietre divelte
Quella primavera senza fiori nel ’44.
Letizia, Grazia, Rosa, Elvira Spizzichino.
di Emma Aboaf, tratto da “Donne Ebree” a cura di Pupa Garribba,
ed. Com Nuovi Tempi
Questo racconto narra la cattura delle zie, sorelle di mia madre, avvenuta
nel maggio del 1944 ed è stato ispirato dal dolore dell’assenza
che ha accompagnato la vita di mia madre e la mia infanzia. Fin da quando sono
nata mi hanno chiamata Elvira pur avendo rilevato il nome di mia nonna Emma.
Al mio Bat-Mitzvà1 mi è stato
affidato l’anello di Letizia, l’unico oggetto rimasto insieme alla
loro macchina da cucire, che sta per partire alla volta di Yad Vascem 2.
Mia madre non è mai arrivata ad Auschwitz ma mi ha scelto come “Candela
della memoria”. Dal 2001, anno in cui è stata istituita la Giornata
della Memoria, sono testimone di seconda generazione e porto nelle scuole il
ricordo delle zie e di mio nonno anche lui ucciso dopo essere arrivato a Buchenwald,
dopo Auschwitz.
Le mie sorelle più giovani si chiamano Grazia e Letizia. Mia madre ha
cercato di restituire la vita alle sorelle attraverso i loro nomi.
Nacqui in un giorno di maggio del 1949 ma
mia madre era morta molto tempo prima.
Mio nonno, uomo spensierato ed ottimista nonché esperto ballerino, si
era risposato dopo la morte della prima moglie.
Rosa gli aveva regalato la libertà e due figlie e si era ritirata in
silenzio, lasciando un vuoto quasi mai riempito appieno.
La giovane sposa, con occhi neri trasparenti e pieni di riso, sembrò possedere
un forte sentimento di ribellione ma ben presto si dovette rassegnare in quella
casa così piena di famiglia e di gente pronta a comandare.
Anch’ella portò alla luce due figlie femmine ed accettò le
altre con quel sano istinto materno che la contraddistingueva: paziente e remissiva,
era saggia e pratica.
La guerra la trovò del tutto impreparata.
Convinta che durante le retate solo gli uomini fossero in pericolo, al calar
della sera seguiva fedele il marito nella cantina del carbonaio.
Il fetido odore e il sudiciume che abbondava in ogni angolo rendevano poco
comodo quel provvidenziale rifugio, ma riuscivano a malapena ad affievolire
i suoi sensi di colpa verso la prole, rimasta sola a casa.
Passi decisi, cadenzati, risuonarono per le larghe scale cardinalizie e trovarono
tregua solo davanti alla porta denunciata.
Lo scampanellio familiare si annunciò normale,incapace di segnalare
il pericolo.
Letizia andò ad aprire distratta con la sua andatura normale, orgogliosa
dei suoi capelli ondulati di fresco.
L’unica già fidanzata, si era attardata fino allo spuntare dell’alba
ed aveva dormito poche ore.
Quel piccolo gruppo scuro le risultò incomprensibile ed il suo sguardo
si perse giù dal cornicione per ritrovarvi un po’ dell’azzurro
cielo scomparso.
Dopo un attimo di vera assenza, emise forte un grido di disperazione e scalciò e
si dimenò con tutte le forze nel tentativo di liberarsi e di allontanare
le sorelle.
Sordi e abituati al dolore, gli uomini procedettero all’arresto.
La scena si tinse di colori artificiali e innaturali ed il grande specchio
in stile neoclassico distorse le immagini delle due sorelle sopraggiunte: accorse
più per l’incosciente curiosità di quella età che
per un eroico slancio di rivolta.
Incredule e impotenti, tentarono di abbracciarsi per rimanere unite ma sottile
fu la crudeltà degli aguzzini che per prima cosa le isolarono.
La più giovane, Elvira, quasi sedicenne, non era ancora donna.
Piagnucolò come una bimba coi suoi occhini innocenti, resi ancora più espressivi
da quel lago di lacrime.
Senza esitare, fu fatta salire per prima su una camionetta militare, pronta
ad aspettarle davanti alla grande conchiglia dell’antico portone.
Ella si azzittì, seduta e sconfitta.
La maggiore, Grazia, alzò gli occhi verso gli appartamenti superiori
e continuò a gridare per lasciare informazioni.
Era sicura di essere ascoltata: percepiva occhi da dietro le persiane chiuse.
Letizia seguì il suo esempio. In quel quartiere fino a Campo de’ Fiori,
tutti amavano la sua solerzia e il dono naturale di saper restaurare a nuovo
qualsiasi indumento rovinato: il suo rammendo era magico. L’arco della
sua bocca, sempre aperto in un fresco sorriso, nascondeva con semplicità il
naso aquilino.
Dov’era mia madre?
Nessuno aveva ascoltato il battito delle sue tempie che, unito in marcia con
quello del cuore, sembrava scoppiare.
Il suo sguardo era fisso verso il basso. Immobile in un attacco di vero panico,
non riusciva a decidere: attraversare il lungo corridoio, salire i gradini
interni e correre dietro alle sorelle o gettarsi sulla coperta, tesa come braccia,
della vicina che ripetutamente la chiamava al di sotto del terrazzino:
<<Rosina, che aspetti?! Buttati, ora vengono a prendere anche te… Rosina
buttati!>>
Non comprese appieno il suo gesto: un forte istinto la guidò e si lasciò cadere
in quel breve spazio senza fine.
Le vide scendere le scale dalla piccola feritoia del cortile e le amò come
non mai.
Forte risuonò il suo martelletto da giudice, e chiara fu la sentenza: <<Colpevole!>>
La condanna fu dura e impietosa: si recluse in una sorta di esilio, al confino,
lontana da sé e da Dio, nell’attesa di quel ritorno che non fu
concesso a nessuno.
Rimasero ad Auschwitz tutte e quattro le sorelle, figlie di uno stesso padre
e di una stessa sorte. Era un giorno di maggio del 1944 e fu in quel giorno
che mia madre morì.
1 La maggiorità religiosa
che per le ragazze è a 12 anni, lett. dall'ebraico:
Figlia del precetto
2 Lo Yad Vashem, l'Ente nazionale
per la Memoria della Shoah, ha sede a Gerusalemme ed è stato
istituito nel 1953 con un atto del Parlamento Israeliano.
Ha il compito di documentare e tramandare la storia del popolo
ebraico durante la Shoah, preservando la memoria di ognuna
delle sei milioni di vittime per mezzo dei suoi archivi,
della biblioteca, della Scuola e dei musei. Ha inoltre il
compito di ricordare i Giusti fra le Nazioni, che rischiarono
le loro vite per aiutare gli ebrei durante la Shoah. |
ISIS
Vincenzo Gioberti - Roma:
La nostra esperienza sulla Shoah |
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