testo
La
famiglia Pace
Gino e Fernanda
Pace si erano
sposati, trentenni, appena finita la Grande Guerra e avevano
avuto subito avuto due figli, Mario e Sergio.
Una famiglia della media borghesia e una vita tranquilla,
circondata dall'affetto di numerosi zii e cugini con
cui condividevano le feste e le tradizioni ebraiche.
Da via Calabria, dove abitavano, presto si trasferirono
in Viale della Piramide Cestia, in un quartiere nuovo dove
erano stati appena costruiti moderni condomini e dove già abitava
uno zio materno. Intanto, con le leggi razziali, i due
ragazzi frequentavano, come tutti gli altri, le scuole ebraiche
mentre gli eventi precipitavano verso la guerra.
Non c'è niente che può descrivere meglio lo
stato d'animo di allora se non le parole del
diario che Mario scrisse alcuni anni dopo: “La
massa degli ebrei era formata da piccoli commercianti,
impiegati, professionisti. ... Quelli più ricchi o
più arditi, se ne andarono... quelli che soffrirono
di più furono quelli di mezzo, che non avevano beni di
fortuna che permettessero loro di sopravvivere
senza lavorare ed erano incapaci di muoversi in modo
illegale. Qualcuno riuscì a sopravvivere, nei
cinque anni che durò la tempesta, qualcuno, come i
miei, arrivò alla stretta finale esausto, e non ci
riuscì”.
Allo scoppiare della guerra, intanto, era venuta ad abitare
con loro la nonna materna, Emma Seppilli, molto anziana,
che ormai non poteva più vivere da sola.
Le notizie che arrivavano sulle persecuzioni negli altri
paesi erano minime e soprattutto incredibili: la confusione
regnava. Nel luglio gli eventi precipitarono: i primi bombardamenti
della città, il 25 luglio e l'arresto di Mussolini,
il proclama di Badoglio, l' oscuramento, colpi di fucile
per le strade e l'8 settembre, l'armistizio.
Chi poteva era fuggito, ma la famiglia Pace non aveva soldi,
la nonna non si poteva abbandonare e Sergio appena
adolescente era troppo giovane per vivere senza i genitori.
Si pensò di allontanare almeno Mario, che aveva quasi
20 anni e che poteva essere preso dai tedeschi
per il lavoro coatto.
Così, pochi giorni prima del 16 ottobre, Mario fuggì a
Firenze insieme a Brunello Sadun, dove l'amico aveva
dei parenti. Qui riuscirono ad avere dei documenti falsi
e con i nomi di Mario Noschese e Bruno Sadini si arruolarono come
ausiliari della Polizia dell'Africa Italiana per passare
inosservati.
“Poi anche a Firenze ci fu la retata degli ebrei. Io
avevo ricevuto una lettera di mia madre che mi aveva
scritto il 13 ottobre, per la mia festa dei vent'anni.
Mi faceva gli auguri e mi diceva di stare tranquillo. Ma a
Roma c'era già stata la questione dell'oro del
riscatto e io non lo sapevo. Mia madre scriveva solo quello
che poteva per rassicurarmi”.
Dopo una ventina di giorni arrivarono le prime notizie e
Mario decise di tornare a Roma.
I vicini raccontarono che i tedeschi erano arrivati
alle sei di mattina e il portiere si era affrettato
ad accompagnarli all'appartamento. Dalle persiane socchiuse,
avevano visto portare via i genitori, il fratello
e la nonna con la sua sedia e ancora la cuffietta bianca
da notte. “I vicini del piano di sotto avevano steso
dei materassi sulla terrazza e cercarono di convincere
Sergio a buttarsi di sotto, ma lui non volle farlo”.
Mario dormì quella notte nel letto dei suoi
genitori. “Era ancora disfatto, così come
era stato lasciato la mattina del 16 ottobre. Riconobbi l'odore
della trapunta blu e rossa , e fu l'ultima volta,
in vita mia, che annusai, se così si può dire,
il calore della famiglia”.
I vicini, dopo la cattura, erano entrati in casa e avevano portato
via tutti gli oggetti di valore che poi furono restituiti:
la solidarietà fu straordinaria.
Mario però doveva fuggire, l'appartamento era
già stato segnalato al “commissariato degli
alloggi”, sarebbe stato requisito ed era troppo pericoloso farsi
vedere. La caccia agli ebrei era solo all'inizio.
Riuscì fortunosamente ad essere accolto nel convento
della Montagnola, dove vestito da prete poté rimanere nascosto
insieme ad altri rifugiati.
All'arrivo degli americani, nel giugno 1944, si arruolò nel
primo gruppo di militari che incontrò, le “salmerie da
combattimento” .
Al ritorno dalla guerra, nel 1945, Mario ebbe le prime
conferme che tutta la sua famiglia non sarebbe tornata! Qualcuno
aveva raccontato che Sergio, selezionato per il lavoro, era
fuggito dalla fila ed era tornato in quella dei genitori,
per condividerne il destino. Una pietosa bugia. Sergio,
che aveva appena 17 anni, fu immatricolato con il n°158601
e inviato a sgomberare le rovine del ghetto di Varsavia
con una ventina di altri giovani italiani. Tre mesi
dopo non era più in vita, ma questo si seppe solo
molti anni dopo, nel 1991, alla pubblicazione di una
ricerca storica.
Nessuno invece si ricordava di Gisella
Grego, triestina, deportata insieme alla famiglia Pace,
della quale nessuno mai aveva parlato. Ne avemmo notizia solo un paio di
anni fa, da una lettera indirizzata al “commissariato
degli alloggi”, scritta da un parente alla fine della
guerra, per recuperare alcuni beni rimasti in casa. Nessuno
sa da quanto tempo Gisella vivesse con loro, né se
avesse dei parenti. Probabilmente, scampata alla retata
degli ebrei triestini, era venuta a Roma e si prendeva cura
della nonna Emma Seppilli, sua concittadina e vecchia amica.
(Ghila Pace)
|
|
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace01.jpg)
Fernanda Piazza in Pace con il figlio Mario
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace03.jpg)
Emma e Ida Seppilli
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace04.jpg)
Sergio e Mario Pace
|
|
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/piramide21_4.jpg)
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace02.jpg)
La famiglia Pace: Gino, Fernanda,
Mario e Sergio
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace06.jpg)
![](../images/fotoinstallazioni5/cestia21/pace07.jpg)
|