Municipio I
Viale della Piramide Cestia, 21 - Roma
14 gennaio 2014

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La famiglia Pace

Gino e Fernanda Pace si erano sposati, trentenni, appena finita la Grande Guerra e avevano avuto subito avuto due figli, Mario e Sergio.
Una famiglia della media borghesia e una vita tranquilla, circondata dall'affetto di numerosi zii e cugini con cui condividevano le feste e le tradizioni ebraiche.  
Da via Calabria, dove abitavano, presto si trasferirono in Viale della Piramide Cestia, in un quartiere nuovo dove erano stati appena costruiti moderni condomini e dove già abitava uno zio materno. Intanto, con le leggi razziali, i due ragazzi frequentavano, come tutti gli altri,  le scuole ebraiche mentre gli eventi precipitavano verso la guerra.

Non c'è niente che può descrivere meglio lo stato d'animo di allora  se non le  parole  del diario che Mario  scrisse alcuni anni dopo: “La massa degli ebrei era  formata da piccoli commercianti, impiegati, professionisti. ... Quelli più ricchi o più arditi, se ne andarono... quelli che soffrirono di più furono quelli di mezzo, che non avevano beni di fortuna che permettessero loro di  sopravvivere senza  lavorare ed erano incapaci di muoversi in modo illegale. Qualcuno  riuscì a sopravvivere, nei cinque anni che durò la tempesta, qualcuno, come i miei, arrivò alla stretta finale esausto, e non ci riuscì”.
Allo scoppiare della guerra, intanto, era venuta ad abitare con loro la nonna materna, Emma Seppilli, molto anziana, che ormai non poteva più vivere da sola.
Le notizie che arrivavano sulle persecuzioni negli altri paesi erano minime e soprattutto incredibili: la confusione regnava. Nel luglio gli eventi precipitarono: i primi bombardamenti della città, il 25 luglio e l'arresto di Mussolini, il proclama di Badoglio, l' oscuramento, colpi di fucile per le strade e l'8 settembre, l'armistizio.
Chi poteva era fuggito, ma la famiglia Pace non aveva soldi, la nonna  non si poteva abbandonare e Sergio appena adolescente era troppo giovane per vivere senza i genitori. Si pensò di allontanare almeno Mario, che aveva quasi 20 anni e che poteva  essere  preso  dai tedeschi per il lavoro coatto.
Così, pochi giorni prima del 16 ottobre, Mario fuggì a Firenze insieme a Brunello Sadun, dove l'amico aveva dei parenti. Qui riuscirono ad avere dei documenti falsi e con i nomi di  Mario Noschese e Bruno Sadini si arruolarono  come ausiliari  della Polizia dell'Africa Italiana per passare inosservati.
“Poi anche a Firenze ci fu la retata degli ebrei. Io avevo ricevuto  una lettera di mia madre che mi aveva scritto  il 13 ottobre, per la mia festa dei vent'anni. Mi faceva gli auguri e mi diceva di stare tranquillo. Ma a Roma c'era già stata la questione dell'oro del riscatto e io non lo sapevo. Mia madre scriveva solo quello che poteva per rassicurarmi”.
Dopo una ventina di giorni arrivarono le prime notizie e Mario decise di tornare  a Roma. 

I vicini raccontarono che i tedeschi erano arrivati alle sei di mattina e il portiere si era affrettato ad accompagnarli all'appartamento. Dalle  persiane socchiuse, avevano visto portare  via  i genitori, il fratello e la nonna con la sua sedia e ancora la cuffietta bianca da notte. “I vicini del piano di sotto avevano steso dei materassi sulla terrazza e cercarono di convincere Sergio a buttarsi di sotto, ma lui non volle farlo”. 
Mario dormì quella notte  nel letto dei suoi genitori. “Era ancora disfatto, così come era stato lasciato la mattina del 16 ottobre. Riconobbi l'odore della trapunta blu e rossa , e fu l'ultima volta, in vita mia, che annusai, se così si può dire, il calore della famiglia”.
I vicini, dopo la cattura, erano entrati in casa e avevano  portato via tutti gli oggetti di valore che poi furono restituiti: la solidarietà fu straordinaria.
Mario  però doveva fuggire, l'appartamento era già stato segnalato al “commissariato degli alloggi”, sarebbe stato requisito ed era troppo pericoloso  farsi vedere. La caccia agli ebrei era solo all'inizio.
Riuscì fortunosamente ad essere accolto nel convento della Montagnola, dove vestito da prete poté rimanere nascosto insieme ad altri rifugiati.
All'arrivo degli americani, nel giugno 1944, si arruolò nel primo gruppo di militari che incontrò, le “salmerie  da combattimento” .

Al ritorno dalla  guerra, nel 1945, Mario ebbe le prime conferme che tutta la sua famiglia non sarebbe tornata! Qualcuno aveva raccontato che Sergio, selezionato per il lavoro, era fuggito dalla fila ed era tornato in quella dei genitori, per condividerne il destino. Una  pietosa bugia.  Sergio, che aveva appena 17 anni, fu immatricolato con il n°158601 e inviato a  sgomberare le rovine del ghetto di Varsavia con  una ventina di altri giovani italiani. Tre mesi dopo non era più in vita, ma questo si seppe solo molti anni dopo, nel 1991, alla pubblicazione  di una ricerca storica.

Nessuno invece si ricordava di Gisella Grego, triestina, deportata insieme alla famiglia Pace, della quale nessuno mai aveva parlato. Ne avemmo notizia solo un paio di anni fa, da una lettera indirizzata al “commissariato degli alloggi”, scritta da un parente alla fine della guerra, per recuperare alcuni beni rimasti in casa. Nessuno sa da quanto tempo Gisella vivesse con loro, né se avesse dei parenti. Probabilmente, scampata  alla retata degli ebrei triestini, era venuta a Roma e si prendeva cura della nonna Emma Seppilli, sua concittadina e vecchia amica.

(Ghila Pace)

 



 

 

 

 

 

 

 

Fernanda Piazza in Pace con il figlio Mario

 

Emma e Ida Seppilli

 

 

Sergio e Mario Pace

 

 

 

 

La famiglia Pace: Gino, Fernanda, Mario e Sergio