Una
piccola lastra quadrata di alabastro accenna, con pochi segni
incisi, al profilo sinuoso di un volto, a quello spigoloso
di due occhi dissimmetrici e di una bocca, ridotti alla loro
essenza formale. Nell’assenza di colore, solo la polvere
d’oro si distribuisce con foggia irregolare nella parte
superiore della superficie: nell’impreziosire ulteriormente
l’oggetto, essa radicalizza la natura bidimensionale
dei segni. Nonostante contravvenga all’imperativo iconoclasta,
all’interdizione cioé dell’immagine come
deterrente antiidolatrico, la tavoletta di Merz è perfettamente
a suo agio nella sinagoga: sembra un reperto prezioso rinvenuto
nel corso degli scavi e appoggiato lì in attesa di
una sistemazione definitiva, addossato a un muro di mattoni
di antichissima fattura, dal quale si distingue per colore,
spessore, trasparenza. Ma, soprattutto, quei pochi segni,
quegli sprazzi di oro certificano l’impossibilità dell’immagine,
almeno nella sua forma compiuta e irrevocabile. |
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