Municipio I
Via della Reginella, 19 - Roma
12 gennaio 2011
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Mio padre Leone

Chiedo a Letizia Pavoncello di raccontarmi quel che ricorda di suo padre Leone, arrestato sotto i suoi occhi di bambina inerme. Il suo papà aveva 42 anni, lei -la sua bambolotta, perché lui la chiamava così- poco più di dodici. Oggi Letizia, una donna che porta ancora i segni del trauma subito, mi accoglie in casa con dolcezza materna, per ricordare e per ricostruire la storia di Leone, deportato ad Auschwitz il 26 giugno ed assassinato nell’ottobre del 1944.

Leone Pavoncello, nato a Roma l’8 marzo del 1902 da una famiglia benestante, durante gli anni Venti si innamora di Virginia: una donna di umili origini, figlia di un carrettiere. Nonostante il parere avverso della famiglia Pavoncello, i due ragazzi decidono di sposarsi, rinunciando così all’aiuto economico di un padre troppo attento a difendere il proprio status.
Per la nuova famiglia Pavoncello s’inizia una vita di grande amore -suggellato dalla nascita di ben cinque figli- ma anche di miseria, e “mentre le sorelle camminavano tra le vie del ghetto sfoggiando cappelli e pellicce, mio padre” -ricorda Letizia- “per mantenerci era costretto a ricorrere ai lavori più umili. Eravamo molto uniti, ma poveri: vivevamo in una stanza in via della Reginella talmente piccola che la mamma cucinava fuori, su un fornelletto a carbone sistemato sul pianerottolo, e quando finalmente era pronto, mangiavamo tutti sul letto, perché non avevamo il tavolo”.
Il 16 ottobre del 1943, Leone -che si arrangia come straccivendolo- esce di casa verso le quattro di mattina. All’alba, all’arrivo delle SS, Virginia è sola con i bambini.
“Ricordo che era un giorno grigio e piovoso, la mamma si alzò all’alba e affacciandosi alla finestra vide i tedeschi che rastrellavano uomini, donne e bambini. Da noi non salì nessuno e così, dopo qualche ora, quando il ghetto sembrava più tranquillo, uscimmo di casa per scappare. Ma in Via Portico d’Ottavia ci prese un tedesco che, dopo poco, ci consegnò a un altro soldato. Questo, con il gesto della mano, ci fece cenno di scappare.
Non sapendo dove andare, tornammo in casa, ma, non appena rientrati, sentimmo bussare violentemente alla porta: battevano con il calcio del fucile, inveendo e urlando malamente il nostro cognome. Scoppiai a piangere e la mamma per non farci scoprire mi tappò la bocca con un fazzoletto. Eravamo terrorizzati, ma rimanemmo in silenzio e per fortuna non sfondarono la porta e se ne andarono.
Papà tornò a casa nel pomeriggio e ci portò via.
Iniziò così il nostro calvario.
Le strade erano deserte e andammo a cercare ospitalità da amici non ebrei: dapprima nel negozio della signora Lilli, poi in campagna da Esterina per un breve periodo, e poi in un vecchio magazzino in Via della Scala, a Trastevere.
Ricordo che una mattina papà uscì per prendere un po’ di sole sulla piazzetta, e mi chiese di seguirlo: camminavo a una certa distanza da lui, ma potei scorgere benissimo le due figure che lo fermarono e lo portarono via. Probabilmente, abbiamo saputo dopo molti anni, si trattò di una spiata”.
“Signorina” s’interrompe Letizia Pavoncello, “le vede le mie mani?” mi domanda porgendomi i palmi. “Hanno iniziato a tremare proprio quel giorno di sessantasette anni fa, quando ho visto portare via papà e non ho potuto fare niente. Niente. Capisce?”.

Era il 13 aprile del 1944 e Leone Pavoncello, arrestato sotto gli occhi della sua bambina, è trasferito nel carcere romano di Regina Coeli. Deportato dapprima a Fossoli e poi ad Auschwitz, muore nel campo di sterminio nell’ottobre del 1944.

(E. Guida)