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Mio padre Leone
Chiedo
a Letizia Pavoncello di raccontarmi quel che ricorda
di suo padre Leone, arrestato sotto i suoi occhi di bambina
inerme. Il suo papà aveva
42 anni, lei -la sua bambolotta, perché lui la chiamava
così- poco più di dodici. Oggi Letizia, una
donna che porta ancora i segni del trauma subito, mi accoglie
in casa con dolcezza materna, per ricordare e per ricostruire
la storia di Leone, deportato ad Auschwitz il 26 giugno
ed assassinato nell’ottobre del 1944.
Leone
Pavoncello, nato a Roma l’8 marzo del 1902 da una famiglia benestante,
durante gli anni Venti si innamora di Virginia: una donna
di umili origini, figlia di un carrettiere. Nonostante il
parere avverso della famiglia Pavoncello, i due ragazzi decidono
di sposarsi, rinunciando così all’aiuto economico
di un padre troppo attento a difendere il proprio status.
Per la nuova famiglia Pavoncello s’inizia una vita di grande amore -suggellato
dalla nascita di ben cinque figli- ma anche di miseria, e “mentre le
sorelle camminavano tra le vie del ghetto sfoggiando cappelli e pellicce, mio
padre” -ricorda Letizia- “per mantenerci era costretto a ricorrere
ai lavori più umili. Eravamo molto uniti, ma poveri: vivevamo in una
stanza in via della Reginella talmente piccola che la mamma cucinava fuori,
su un fornelletto a carbone sistemato sul pianerottolo, e quando finalmente
era pronto, mangiavamo tutti sul letto, perché non avevamo il tavolo”.
Il 16 ottobre del 1943, Leone -che si arrangia come straccivendolo- esce di
casa verso le quattro di mattina. All’alba, all’arrivo delle SS,
Virginia è sola con i bambini.
“Ricordo che era un giorno grigio e piovoso, la mamma si alzò all’alba
e affacciandosi alla finestra vide i tedeschi che rastrellavano uomini, donne
e bambini. Da noi non salì nessuno e così, dopo qualche ora, quando
il ghetto sembrava più tranquillo, uscimmo di casa per scappare. Ma in
Via Portico d’Ottavia ci prese un tedesco che, dopo poco, ci consegnò a
un altro soldato. Questo, con il gesto della mano, ci fece cenno di scappare.
Non sapendo dove andare, tornammo in casa, ma, non appena rientrati, sentimmo
bussare violentemente alla porta: battevano con il calcio del fucile, inveendo
e urlando malamente il nostro cognome. Scoppiai a piangere e la mamma per non
farci scoprire mi tappò la bocca con un fazzoletto. Eravamo terrorizzati,
ma rimanemmo in silenzio e per fortuna non sfondarono la porta e se ne andarono.
Papà tornò a casa nel pomeriggio e ci portò via.
Iniziò così il nostro calvario.
Le strade erano deserte e andammo a cercare ospitalità da amici non
ebrei: dapprima nel negozio della signora Lilli, poi in campagna da Esterina
per un breve periodo, e poi in un vecchio magazzino in Via della Scala, a Trastevere.
Ricordo che una mattina papà uscì per prendere un po’ di
sole sulla piazzetta, e mi chiese di seguirlo: camminavo a una certa distanza
da lui, ma potei scorgere benissimo le due figure che lo fermarono e lo portarono
via. Probabilmente, abbiamo saputo dopo molti anni, si trattò di una
spiata”.
“Signorina” s’interrompe Letizia Pavoncello, “le vede
le mie mani?” mi domanda porgendomi i palmi. “Hanno iniziato a tremare
proprio quel giorno di sessantasette anni fa, quando ho visto portare via papà e
non ho potuto fare niente. Niente. Capisce?”.
Era
il 13 aprile del 1944 e Leone Pavoncello, arrestato sotto
gli occhi della sua bambina, è trasferito nel carcere romano di
Regina Coeli. Deportato dapprima a Fossoli e poi ad Auschwitz,
muore nel campo di sterminio nell’ottobre del 1944.
(E. Guida)
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