Municipio I
Via Marmorata, 169 - Roma
13 gennaio 2014

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Dalle Memorie di Fortunata Di Porto, figlia di Lazzaro Di Porto

“Non è facile tornare con la mente a quei giorni. Sono trascorsi ormai settanta anni eppure il ricordo è rimasto limpido in me, chiaro come fosse ieri. Prima delle leggi razziali mio padre, Lazzaro Di Porto, era proprietario di un emporio a Roma, in via Cincinnato, nel quartiere del Quadraro. Avevo quasi quattro anni quando gli è stata tolta la possibilità di lavorare.
A poco a poco la nostra vita cambiò e da una situazione agiata ci trovammo sempre più in difficoltà. Mio padre, non avendo più mezzi per affrontare il pagamento dell’affitto, decise di lasciare la casa dove avevamo vissuto fino a quel giorno. Trovammo ospitalità in casa dei nonni materni, nel quartiere di Testaccio e lì cominciai a frequentare la prima e la seconda elementare nella scuola Quattro Novembre.
Purtroppo, però,anche il mio approccio con la scuola non fu dei migliori: fui inserita in una pluriclasse per bambini di “razza ebraica”, eravamo obbligati ad entrare nell’istituto attraverso un portoncino secondario e potevamo entrare solo dopo che tutti i bambini avevano fatto il loro ingresso. Inutile puntualizzare che la stessa sorte ci toccava anche al termine delle lezioni.
I giorni passavano e la situazione si faceva sempre più drammatica. Anche lavorare abusivamente stava diventando difficile. I fascisti fermavano continuamente gli uomini che lavoravano per la strada. Ripetutamente minacciato e segnalato, papà non poté più esporsi personalmente, così anche se malvolentieri, fu costretto a mandarmi a lavorare al suo posto. Ancora mi rivedo là, in Via dei Giubbonari, una bimbetta con in collo una cassettina che conteneva veli da chiesa e ferretti per coprire i tacchi delle scarpe. Questi erano gli articoli in vendita… Non è questa infanzia violata?
Mio padre in ogni caso non mi abbandonava neppure per un minuto, nascosto in un portone osservava ogni mia mossa, pronto a proteggermi e ad intervenire appena ce ne fosse stata la necessità. Poi un giorno, le milizie fasciste mi fermarono, volevano sequestrarmi la merce. A quel punto mio padre uscì allo scoperto, intervenne per difendermi, così lo arrestarono conducendolo al commissariato di Campo dé Fiori.
La vita continuava a procedere fra un espediente e l’altro, finche arrivò l’otto settembre ed ogni sogno di libertà fu infranto dall’occupazione tedesca.
Non potete certo immaginare il terrore provato nell’udire le sparatorie e i cannoneggiamenti quasi sotto le finestre di casa. Ma tutto questo non fu nulla in confronto a ciò che sarebbe accaduto in seguito.
Il 16 ottobre era un sabato, mio padre era appena uscito per recarsi al Tempio, percorrendo la strada a piedi, notò subito che qualche cosa non andava per il verso giusto. Alcuni correligionari lo avvertirono che era in corso un rastrellamento nel ghetto e che i tedeschi avevano gli indirizzi di tutti gli ebrei. Mio padre corse indietro e cercò di avvertire le famiglie di sua conoscenza che abitavano in zona, affinché si mettessero in salvo. Anche noi uscimmo di casa in quel grigio e cupo giorno, camminammo sotto la pioggia, avevo l’impressione che come il mio cuore, anche il cielo piangesse. Camminammo incessantemente fino al Quadraro perché papà pensava che forse lì avrebbe trovato aiuto presso alcuni suoi conoscenti antifascisti, purtroppo non andò così, in zona c’erano molte squadracce che sorvegliavano e essendo conosciuti come famiglia ebraica avremmo messo in serio pericolo i nostri amici quindi ce ne tornammo zuppi e stanchi e senza alcuna speranza verso casa, ma come succede a volte, nei momenti di buio totale si intravede uno spiraglio di luce, per noi questa luce fu il signor Dino era il portiere dello stabile dove vivevamo; Dino si assunse una grande responsabilità, ci fece rientrare in casa raccomandandoci di fare finta che l’appartamento fosse vuoto. Così aveva dichiarato alla milizia e ai tedeschi. Le finestre dovevano restare sempre chiuse, non potevamo muoverci liberamente e soprattutto dovevamo parlare a bassa voce. Capirete quanto non fosse facile per un bambino vivere così. Nel novembre del 1943 mamma mise alla luce mia sorella più piccola l’ultima delle quattro. Con la nascita di Silvia le cose si complicarono sempre di più . Io ero terrorizzata dalla guerra e quindi quando eravamo in casa non aprivo bocca neanche per respirare, ma come avremmo fatto a spiegare ad un neonato che non avrebbe potuto piangere se avesse avuto fame? Per non parlare poi delle fasce che, non potendo aprire le finestre, venivano stese in casa. Ancora oggi, in inverno, non riesco a sopportare la vista dei panni umidi che si asciugano vicino al termosifone, mi ricordano troppo quei momenti.
Mia madre, per sfamare le mie sorelle e me, fu costretta a vendere tutte quelle piccole cose che le erano rimaste come ricordo di una vita normale, un paio di orecchini che papà le aveva regalato per il suo compleanno, un braccialetto di quando era ragazza e perfino l’anello di fidanzamento, barattati per un pugno di crusca mescolata a un po’ di farina.
Poi giunse la primavera e nell’aria accanto al profumo dei fiori sentivamo l’imminente arrivo degli alleati. Erano sempre più vicini e le nostre speranze che tutto finisse, sembravano divenire realtà.
Nella mia mente i ricordi del mese di Maggio si fanno confusi. Mi sembra tutto assurdo… Inaccettabile… Non doveva accadere… A pochi giorni dall’ingresso degli alleati a Roma! Era intorno alla fine del mese, mio padre uscì di casa e da quel giorno non l’ho più visto.
Ci raccontarono tante storie sulla sua cattura, sulla sua carcerazione a Regina Coeli, sul suo transito a Fossoli, sulla sua deportazione ad Auschwitz, sulla sua morte.
Una bambina, una bambina tante cose non le capisce ed io capivo soltanto che una mattina mio padre era uscito di casa e non era più tornato. Con il passare del tempo le cose non cambiarono, non capivo perché tante persone tornavano e Lui: Lui che io amavo più di tutto, lui non bussava alla porta, non fischiava sotto la finestra per avvertirci che era tornato. Ho aspettato, non so quanto ho aspettato che questo accadesse, aspettando e aspettando non riuscivo più nemmeno a percepire il tempo che passava e cambiava le cose attorno a me.
Gli anni passavano, io crescevo, non ero ormai più una bambina, ma nella mia mente mio padre non invecchiava era rimasto lo stesso uomo che io avevo visto andare via. Finché un giorno, era ormai il 1957 accadde un episodio che mi spaventò terribilmente e mi fece pensare molto. Ero sull’autobus con il mio fidanzato, oggi mio marito, quando intravidi un uomo per la strada che somigliava in tutto a mio padre, non capii più nulla, scesi di corsa dall’autobus e cominciai a rincorrerlo finché non lo raggiunsi. Non potete immaginare la sofferenza e il dolore provata nel capire che non era mio padre. Nei miei ricordi lo rivedevo così come quel triste giorno in cui aveva chiuso dietro di sé la porta di casa ma in realtà erano già passati più di dieci anni.
Credo sia stato solo allora che per la prima volta io abbia cominciato a maturare l’idea della morte di mio padre. Nulla mi è rimasto dell’uomo che mi ha dato la vita, nulla tranne alcune foto, un muro al cimitero che ricorda le vittime della Shoà e una lapide che riporta il suo nome nel palazzo di Via Marmorata n 169”.