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Dalle Memorie di
Fortunata Di Porto, figlia di Lazzaro Di Porto
“Non è facile tornare con la mente a quei
giorni. Sono trascorsi ormai settanta anni eppure il
ricordo è rimasto limpido in me, chiaro come
fosse ieri. Prima delle leggi razziali mio padre, Lazzaro
Di Porto, era proprietario di un emporio a Roma, in
via Cincinnato, nel quartiere del Quadraro. Avevo quasi
quattro anni quando gli è stata tolta la possibilità di
lavorare.
A poco a poco la nostra vita cambiò e da una
situazione agiata ci trovammo sempre più in
difficoltà. Mio padre, non avendo più mezzi
per affrontare il pagamento dell’affitto, decise
di lasciare la casa dove avevamo vissuto fino a quel
giorno. Trovammo ospitalità in casa dei nonni
materni, nel quartiere di Testaccio e lì cominciai
a frequentare la prima e la seconda elementare nella
scuola Quattro Novembre.
Purtroppo, però,anche il mio approccio con la
scuola non fu dei migliori: fui inserita in una pluriclasse
per bambini di “razza ebraica”, eravamo
obbligati ad entrare nell’istituto attraverso
un portoncino secondario e potevamo entrare solo dopo
che tutti i bambini avevano fatto il loro ingresso.
Inutile puntualizzare che la stessa sorte ci toccava
anche al termine delle lezioni.
I giorni passavano e la situazione si faceva sempre
più drammatica. Anche lavorare abusivamente
stava diventando difficile. I fascisti fermavano continuamente
gli uomini che lavoravano per la strada. Ripetutamente
minacciato e segnalato, papà non poté più esporsi
personalmente, così anche se malvolentieri,
fu costretto a mandarmi a lavorare al suo posto. Ancora
mi rivedo là, in Via dei Giubbonari, una bimbetta
con in collo una cassettina che conteneva veli da chiesa
e ferretti per coprire i tacchi delle scarpe. Questi
erano gli articoli in vendita… Non è questa
infanzia violata?
Mio padre in ogni caso non mi abbandonava neppure per
un minuto, nascosto in un portone osservava ogni mia
mossa, pronto a proteggermi e ad intervenire appena
ce ne fosse stata la necessità. Poi un giorno,
le milizie fasciste mi fermarono, volevano sequestrarmi
la merce. A quel punto mio padre uscì allo scoperto,
intervenne per difendermi, così lo arrestarono
conducendolo al commissariato di Campo dé Fiori.
La vita continuava a procedere fra un espediente e
l’altro, finche arrivò l’otto settembre
ed ogni sogno di libertà fu infranto dall’occupazione
tedesca.
Non potete certo immaginare il terrore provato nell’udire
le sparatorie e i cannoneggiamenti quasi sotto le finestre
di casa. Ma tutto questo non fu nulla in confronto
a ciò che sarebbe accaduto in seguito.
Il 16 ottobre era un sabato, mio padre era appena uscito
per recarsi al Tempio, percorrendo la strada a piedi,
notò subito che qualche cosa non andava per
il verso giusto. Alcuni correligionari lo avvertirono
che era in corso un rastrellamento nel ghetto e che
i tedeschi avevano gli indirizzi di tutti gli ebrei.
Mio padre corse indietro e cercò di avvertire
le famiglie di sua conoscenza che abitavano in zona,
affinché si mettessero in salvo. Anche noi uscimmo
di casa in quel grigio e cupo giorno, camminammo sotto
la pioggia, avevo l’impressione che come il mio
cuore, anche il cielo piangesse. Camminammo incessantemente
fino al Quadraro perché papà pensava
che forse lì avrebbe trovato aiuto presso alcuni
suoi conoscenti antifascisti, purtroppo non andò così,
in zona c’erano molte squadracce che sorvegliavano
e essendo conosciuti come famiglia ebraica avremmo
messo in serio pericolo i nostri amici quindi ce ne
tornammo zuppi e stanchi e senza alcuna speranza verso
casa, ma come succede a volte, nei momenti di buio
totale si intravede uno spiraglio di luce, per noi
questa luce fu il signor Dino era il portiere dello
stabile dove vivevamo; Dino si assunse una grande responsabilità,
ci fece rientrare in casa raccomandandoci di fare finta
che l’appartamento fosse vuoto. Così aveva
dichiarato alla milizia e ai tedeschi. Le finestre
dovevano restare sempre chiuse, non potevamo muoverci
liberamente e soprattutto dovevamo parlare a bassa
voce. Capirete quanto non fosse facile per un bambino
vivere così. Nel novembre del 1943 mamma mise
alla luce mia sorella più piccola l’ultima
delle quattro. Con la nascita di Silvia le cose si
complicarono sempre di più . Io ero terrorizzata
dalla guerra e quindi quando eravamo in casa non aprivo
bocca neanche per respirare, ma come avremmo fatto
a spiegare ad un neonato che non avrebbe potuto piangere
se avesse avuto fame? Per non parlare poi delle fasce
che, non potendo aprire le finestre, venivano stese
in casa. Ancora oggi, in inverno, non riesco a sopportare
la vista dei panni umidi che si asciugano vicino al
termosifone, mi ricordano troppo quei momenti.
Mia madre, per sfamare le mie sorelle e me, fu costretta
a vendere tutte quelle piccole cose che le erano rimaste
come ricordo di una vita normale, un paio di orecchini
che papà le aveva regalato per il suo compleanno,
un braccialetto di quando era ragazza e perfino l’anello
di fidanzamento, barattati per un pugno di crusca mescolata
a un po’ di farina.
Poi giunse la primavera e nell’aria accanto al
profumo dei fiori sentivamo l’imminente arrivo
degli alleati. Erano sempre più vicini e le
nostre speranze che tutto finisse, sembravano divenire
realtà.
Nella mia mente i ricordi del mese di Maggio si fanno
confusi. Mi sembra tutto assurdo… Inaccettabile… Non
doveva accadere… A pochi giorni dall’ingresso
degli alleati a Roma! Era intorno alla fine del mese,
mio padre uscì di casa e da quel giorno non
l’ho più visto.
Ci raccontarono tante storie sulla sua cattura, sulla
sua carcerazione a Regina Coeli, sul suo transito a
Fossoli, sulla sua deportazione ad Auschwitz, sulla
sua morte.
Una bambina, una bambina tante cose non le capisce
ed io capivo soltanto che una mattina mio padre era
uscito di casa e non era più tornato. Con il
passare del tempo le cose non cambiarono, non capivo
perché tante persone tornavano e Lui: Lui che
io amavo più di tutto, lui non bussava alla
porta, non fischiava sotto la finestra per avvertirci
che era tornato. Ho aspettato, non so quanto ho aspettato
che questo accadesse, aspettando e aspettando non riuscivo
più nemmeno a percepire il tempo che passava
e cambiava le cose attorno a me.
Gli anni passavano, io crescevo, non ero ormai più una
bambina, ma nella mia mente mio padre non invecchiava
era rimasto lo stesso uomo che io avevo visto andare
via. Finché un giorno, era ormai il 1957 accadde
un episodio che mi spaventò terribilmente e
mi fece pensare molto. Ero sull’autobus con il
mio fidanzato, oggi mio marito, quando intravidi un
uomo per la strada che somigliava in tutto a mio padre,
non capii più nulla, scesi di corsa dall’autobus
e cominciai a rincorrerlo finché non lo raggiunsi.
Non potete immaginare la sofferenza e il dolore provata
nel capire che non era mio padre. Nei miei ricordi
lo rivedevo così come quel triste giorno in
cui aveva chiuso dietro di sé la porta di casa
ma in realtà erano già passati più di
dieci anni.
Credo sia stato solo allora che per la prima volta
io abbia cominciato a maturare l’idea della morte
di mio padre. Nulla mi è rimasto dell’uomo
che mi ha dato la vita, nulla tranne alcune foto, un
muro al cimitero che ricorda le vittime della Shoà e
una lapide che riporta il suo nome nel palazzo di Via
Marmorata n 169”.
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